sabato 30 gennaio 2010

Memoirs in the key of life


Ma avete mai provato a mettere a posto tra le vecchie chiavi? Non ve l’auguro! Sono come le foto vecchie. Ognuna di esse ti ricorda qualcosa: ecco la chiave dell’armadio della nostra stanza, quando vivevamo ancora con i nostri genitori. In quell’armadio in fondo al cassetto delle camicie, sotto quella che non mettevamo mai, c’era il foglietto che in classe ci aveva scritto Paola, quella timida peggio di noi ma almeno il coraggio di scriverci qualcosa l’aveva trovato (sempre le donne, che diavolo!).
Ecco le chiavi di casa di Nonna, che si tenevano per “sicurezza”. Le chiavi della catena della bici. Le chiavi del nostro primo Ciao, e poi della Vespa, poi del Vespone. Per non parlare dei lucchetti inutili di tutte le valigie Mandarina Duck, le avessimo usate una volta sola nella vita.
Quella chiave pazza dell’ascensore di zia, quella scanalata come un vecchio gettone telefonico, una chiave dei primi del 900, quando il privilegio di usare un ascensore era riservato solamente ai condomini, manco agli ospiti.
Poi ci sono le chiavi “adulte”: quelle della casa della nostra prima convivenza:
- La richiamo Barbara? Così gliele ridò...
Ma che ci farà mai, da mo’ che ha cambiato il blocchetto...
Le chiavi di casa del nostro amico, ce le ha date anche lui per “sicurezza”:
- Ti dispiace? Se rimango fuori, magari chiamo te, il portiere non ce l’ho...
Tu gli dici “ma certo...” ma ti auguri che non ti chiami mai di notte, e così sarà: ti chiamerà la moglie che se le è perse al mercato e lui è a Milano.
Ed ecco infine le chiavi di casa nostra, quella dove siamo cresciuti. Sono le chiavi più importanti perché hanno chiuso quella porta per sempre: lì dentro non ci entreremo mai più. Ce la siamo chiusa dietro le spalle per sempre e quelle chiavi non servono più a niente. E sono proprio le uniche che dovremo buttare senza guardare... Le altre le terremo per ridere o per piangere.

PS: ovviamente ne manca una. Quella del cuore della donna della nostra vita, quella di Oyedo e compagnia bella...

mercoledì 27 gennaio 2010

Prima che cambi il mondo


Ricorderemo queste parole, ricorderò questo scritto, ricorderò i pensieri che ANCORA PER 4 ORE sto battendo su una tastiera meccanica seppure su uno schermo a LCD? Chi può dire ADESSO se stasera l’uomo a sinistra nella foto cambierà il mondo come ormai tutti i giornali su carta (straccia) hanno scritto in questi giorni? Le vigilie hanno sempre un sapore dolceamaro, mischiano la speranza alla paura delle aspettative deluse, stasera sarà Natale o soltanto un mercoledi di coppe? E le ultime ore prima del debutto sono terra di nessuno. Adesso che scrivo, lì, a San Francisco, stanno dormendo, i cervelli stanno elaborando nel sonno in attesa del fuoco d’artificio che spareranno tra poche ore. Nel frattempo non posso che scrutare questa foto. A sinistra vedo un ragazzo con una maglietta da football a girocollo, jeans e piedi nudi su un tappeto tex-mex seduto come un pellerossa su una “Charles Eames” il cui poggiapiedi è occupato da un nerd assorto che forse ha già capito chi sarà il più forte tra i due alla lunga. Quello a sinistra negli anni ha poi imparato a vestirsi evitando almeno quelle magliette a favore di dolcevita neri. Quello a destra non ha mai imparato. Quello a sinistra è sopravvissuto a un trapianto di fegato. Quello a destra ha continuato a tenersi l’alitosi coltivata a botte di aglio triplo. Quello a sinistra ha perso e ricomprato la sua società e oggi produce i cartoni animati più belli del mondo. Quello a destra era troppo stanco per tenersi la sua e ora fa il filantropo.
Quello a sinistra stasera mi dirà chi sarò da domani.
Quello a destra... anche lui lo saprà stasera.
Quello a sinistra è Steve Jobs.
Quello a destra...

lunedì 25 gennaio 2010

Ci vediamo la prossima settimana...


Quando s’incontra una persona per strada ormai non c’è più tempo di scambiarsi due chiacchiere per dirsi, entro i 30-40 secondi circa che dura l’incontro, come si sta veramente, e quindi spesso si conclude il saluto con una bugia ENORME che prende forma sotto la frase “ci vediamo la prossima settimana a cena”. In realtà non vi vedrete mai fino al prossimo casuale incontro. Da questo si evince che l’amicizia vera non passa attraverso queste frasi e stabilisce all’istante l’appuntamento per rivedersi DAVVERO a cena. Invece l’amicizia vittima di queste terribili frasi di circostanza va messa sotto l’ombrello della pigrizia e dell’indolenza. Accettiamola comunque ma con queste avvertenze...
“Ci vediamo la prossima settimana?” (classica. Ma è la più pericolosa perché rimanda a voi il problema di chiamare e stabilire o proporre la data, in realtà dietro quel punto interrogativo c’è un mondo oscuro fatto di altre scuse future e di rimandi sine die, lasciate perdere rispondendo “quando ti pare”: cioè MAI!
“Ci vediamo la prossima settimana, dài...” (quel “dài”, sembra dare l’intenzione che la cena è proprio cosa fatta, che davvero la prossima settimana ci vedremo, invece no!).
“Guarda, adesso sto cambiando la filippina, con i ragazzini non sai che inferno, appena sistemo ci vediamo...” (una scusa patetica: non è una bugia, la sta cambiando sul serio, ma non si vede per quale motivo il “cambio” dovrebbe impedire la realizzazione di un burro e parmigiano per altre due persone a cena).
“Senti, appena mi guarisce Agata dalla varicella, ti chiamo. Ti chiamo io” (questa è una delle peggiori: scudo con la malattia esantematica della figlia già contratta da noi alla sua età quindi assolutamente immuni, difficile replicare, ma magari se la prende lui che non l’aveva avuta mai, così impara).
“Ci vediamo appena torna Luisa dall’Argentina” (un posto lontano, si presumono gravi problemi di jet-lag, passeranno 15 giorni e vi dimenticherete).
“Non appena finisco i lavori a casa organizziamo una bella cenetta” (infida: a casa tua sono anni che non finiscono i lavori, se li hai mai iniziati, visto che ci vivi, e sono già arrivate smentite di altre persone che ci sono state lamentando solo qualche scatolone a terra pieno di libri che non verranno mai messi a posto. E comunque casa tua sembra sempre con i lavori in corso, lo vogliamo dire?).
“Non appena finisco il turno di notte” (massimo rispetto, si tratta di un medico che fa le guardie, mai alzare una polemica e tenerselo sempre amico, perché come diceva Alberto Sordi: “medico in casa, il male pasa!”
Aveva ragione mia Nonna: quando salutava qualcuno gli diceva “addio”.

lunedì 18 gennaio 2010

Triage: la scelta di un colore


In un pronto soccorso, di notte, come in una piccola Legoland, tutti i ruoli sono rispettati grazie all’aiuto di una divisa. In questo gioco di ruolo quelli un po’ “svantaggiati”, essendo gli unici a non averla, sono i “pazienti” che rimangono turisti in un paese dove non trovano nemmeno la stazione.
Prima cosa, appena arrivi, senti che non vorresti essere là, ma non appena qualcuno con la divisa (infermiere) ti fa una domanda e ti guarda negli occhi, improvvisamente realizzi che meno male che ci sei andato. Ti trovi già nel “triage”, nome bellissimo che ci proietta subito in Normandia, in bianco e nero, con un cappotto lungo, una gauloises in bocca, un cappellaccio e un’aria terribilmente sexy, ti danno il voto del tuo malore, riportandoti alla realtà: grazie a Dio siamo bianchi, al massimo verdi. L’attesa da qual momento è l’unica nostra amica: guardi e riguardi come è fatta la zampa di una sedia, il cellulare per fortuna non ti serve, (chi devi chiamare alle tre di notte per dirgli che sei un codice verde?) ma solo ad averlo tra le mani ti senti potentissimo. Ricomincia il gioco dei ruoli: barellieri che sfrecciano con sedie e barelle come spade laser di Guerre Stellari, infermiere che brandiscono flebo e tubi relativi come bolas, poliziotti che gestiscono tossici al risveglio “stai giù, stai bono, ‘ndo vai?”, madri che vorrebbero dare un’altra sberla al figlio che ha fatto a botte e invece gli danno una carezza, mogli apprensive che ripercorrono, al telefono con qualche parente, tutti i pranzi e le cene dell’ultima settimana per capire che cos’è che può aver fatto male al marito che sta di là con l’allergia.
Ti chiamano, il tuo codice da adesso è un nome: il tuo. Entri nella hall più assurda che abbia mai visto in vita tua. Sembra un nido di maternità, ma non ci sono i neonati: i letti sono lunghi due metri, tutta alti dal suolo, dentro i tuoi simili, tutti con flebo e macchine attaccate, nessun vagito, solo lamenti, chiacchiere e ronfamenti, in un concerto che manco Stravinsky. Attorno ai 20 letti, tutti stretti tra di loro, una sciame di infermieri, medici, chirurghi, internisti, tutti di turno, che passano da un paziente all’altro con la disinvoltura di Linda Evangelista, Claudia Schiffer ed Helen Christensen
in una sfilata anni 80. Adesso un medico, donna, ti guarda negli occhi e ti chiede cosa hai: vorresti piangere e dirle semplicemente “MI SALVI LA VITA! LA PREGO!”. Ma lei ha già capito tutto e con le colleghe, alcune VOLONTARIE, elabora dosi e somministrazioni registrandole al secondo
sulla tua cartella clinica. Quel che resta della notte passa guardando un soffitto e ascoltando il concerto di Stravinsky. Solo quando ti dimettono, quando ormai sta per albeggiare, ti rendi conto che fino a quando ci sarà una persona che ti dice “non ti preoccupare, domani passa”, sei l’uomo più felice del mondo.

PS: ovviamente quell’enorme porta aerei bianca con quella croce rossa al centro che Obama ha spedito ad Haiti, è secondo me la nave più bella che esista. Anche a Legoland.

martedì 12 gennaio 2010

Non ti ho ancora incontrata


Ma sono anni che lo dico: non decidiamo noi. Prendete la fattispecie. La casa discografica alla fine di un concerto del suo pupillo d’oro Michael Bublé che con due lire (begli arrangiamenti e vecchie canzoni: non devi pagare nessuno per scriverle, sono morti) gli monta, grazie a David Foster, album che sfondano all over the world, organizza una serata dopo il live di Buenos Aires dove lui incontra, dopo un quarto d’ora e tre wiskies, questa bella ragazza, probabilmente già vestita così. I due si piacciono, ovviamente, i numeri non hanno bisogno di chiederseli, gli uffici stampa relativi (lei fa la modella e qualche soap) organizzano un dinner ovunque loro vogliano quando desiderino. Insomma si risentono e forse si rivedono, ma lui parte per finire la tournée che lo porterà infine in un localino di NYC: il Madison Square Garden, dove verrà realizzata la sequenza filmata più sfrenante di un artista all’acme massimo della sua adrenalina in uscita da un palcoscenico. Finisce il tour, lui pensa al nuovo album, c’è una canzone carina, un po’ Beatles, parla di uno che incontra la ragazza della sua vita in un supermercato (sottobraccio a parlar di surgelati, rincarati), si deve girare il video:
- Chi pensavi Michael?
- Boh, voi che dite?
- Una carina ci vorrebbe, ma una modella, non una che vuole recitare!
- Fate voi...
- Ehi, Michael ti ricordi quella di Buenos Aires, quella biondina?
- Ok! È un po’ che non la sento... vedi se le va...
Lei accetta, non aveva niente da fare, e quindi girano insieme questo video: complice la canzone, s’innamorano davvero durante le riprese, e lui, notizia di pochi minuti fa, le chiede di sposarlo, 12 anni e qualche milione di dollari di differenza. Glielo chiede a modo suo, nello stile di Nonno Bublé, regalando un anello con diamante, (Tiffany? Bvlgari? Cartier?), prendendole la mano, magari in ginocchio, con un sorriso dei suoi, e una modulazione tipo flauto d’oro di Severino Gazzelloni. FATTO! Il resto è storia: fatica d’incontrare la donna della sua vita? ZERO!
Fatica di conoscerla? ZERO!
Fatica di rivederla? ZERO!
Fatica di chiederla in sposa? ZERO!
Ve l’ho detto: non decidiamo noi...

PS: notate come alla fine del video lei non riesca nemmeno a non ridere quando doveva fare esattamente finta di niente. Quella brava è la cassiera ma che, ovviamente, è un mostro.

lunedì 11 gennaio 2010

Too small


Nella battaglia a colpi di presunte novità che in questi giorni si sta combattendo tra gli espositori (tra i quali figurano mostri come Microsoft e Intel) a Las Vegas, e più precisamente al Consumer Electronics Show, per essere i primi a mettere in vendita la novità più attesa nel campo dei computer e cioè il TABLET, il computer ultraportatile, manca da parte dei costruttori, un’attenzione di fondo: ma PER CHI LI FANNO QUESTI TABLET? Non si sono resi conto che LE DITA, LE DITA UMANE, NON ENTRANO, NON ENTRANO PIU’? Le nostre dita non hanno un campo d’azione sufficiente per muoversi su quegli schermetti, e la tastiera “touch” non funziona bene sotto i colpi maldestri che diamo (complice,va detto, la vista che comincia inesorabilmente a flettersi come una batteria scarica). Le mani che vediamo svolazzare leggiadre negli spot, sono di un “manista”, cioè di uno che di bello ha le mani (spesso un mostro di faccia, anche da piccolo gli dicevano “che belle mani che hai”). Quindi non ha quelle ditacce che ci ritroviamo tutti noi, screpolate, avvizzite da anni di tagliere, con cipolla, carota e coltellino, oltre ad anni di battiture su tasti meccanici delle olivetti prima e dei computer poi e che si muovono ormai incerte dal timore di sbagliarsi su quelle tastiere formato santino. Adesso basta, è arrivato il momento di dirlo. I dirigenti di queste aziende devono capire che questi oggetti andranno in mano a gente normale, come loro, non agli insetti e alle loro piccole chele. Quando capiranno che dopo i 16 anni le mani dell’essere umano diventano degli attrezzi e non sono più quelle di Mimì dell’omonima gelida. E mi chiedo, anche: ma loro come fanno poi? Steve Ballmer, Ceo della Microsoft è un orco, pesa 120 chili, il suo nuovo tablet gli sta nel palmo della mano, come pensa di scrivere una mail se non con l’aiuto di una segretaria appena uscita dalla UCLA?
Io adoro la tecnologia, mi sfrena la novità, e sono, giustamente, fanatico della Apple sin dal 1990, sono quindi vent’anni tondi tondi, era gennaio, che un Mac è dentro casa mia. Però io l’iPhone, purtroppo non ce l’ho, proprio perché è tutto fuorché un telefono, anche se riconosco che è l’oggetto più bello del mondo, dopo il termometro! Ma adesso forse mi rifarò, perché toccherà a lui presentare “iSlate” come pare si chiami, il tablet della Apple. Sto parlando di Steve Jobs, l’uomo che ha detto “È vero sono ricco, ricchissimo, ma sono disposto a dare via tutto il mio patrimonio in cambio di un pomeriggio con Socrate” (per inciso, lo vorrei proprio vedere...). Jobs è stato il profeta del “Think Different” e io proprio questo gli voglio chiedere alla vigilia (se tutto va bene il 26 gennaio, Steve parla sempre di martedì) della sua presentazione del tablet così come lo vede lui, quindi bellissimo:
- Steve, tu che sei il mio idolo, non smentirti, e ti prego, di’ qualcosa di UMANO!|

giovedì 7 gennaio 2010

Anno nuovo, vita misma!


È fatta! Dài, su, non è successo niente, è già tutto finito, avevamo tanta paura e invece eccoci qua: feste passate, compreso l’inutile 31 (lo scopo era sparecchiare entro la notte per alzarsi la mattina dell’1 senza tracce alcune di alcunché!). Finalmente possiamo andare di rifilo al cinema dopo avere visto tutti i blockbuster (Hachiko, se avete un cane non potete, “Sherlock Holmes” fantastico, quando esce il 2? “Piovono polpette” ideale per cominciare una dieta, “La principessa e il ranocchio” viva i cartoni a 2 D).
Domani è venerdì, un venerdì scamuffo, si lavorerà poco in quanto è una lunghissima vigilia del prossimo weekend, quindi ottimo per una svogliata rassegna delle mail di auguri alle quali non avevamo ancora risposto e soprattutto per smontare l’albero, riguadagnando il metro quadro calpestabile che occupava in salotto, smistare i regali da mandare al riciclo e quelli da cambiare complici i saldi aggiungendo una “piccola” differenza.
Domani comincia veramente l’anno, facendoci riemergere dall’ipnosi collettiva nella quale boccheggiavamo dal 24 pomeriggio. Due chili in più addosso sulla struttura ci guardiamo allo specchio cercando di vedere qualcuno di diverso, ma non c’è niente da fare: ovviamente i propositi del 2010 sono gli stessi del 2009 (dieta, palestra, inglese, leggere di più) quindi non pensiamoci, tanto non li metteremo in atto se non per un mese, scarso, di dieta a maggio (dopo Pasqua) per tentare di mettersi il costume a giugno.
Cosa aspettarsi dal 2010? Niente, così sarà bellissimo, zero aspettative, qualsiasi cosa piccola e buona dovesse mai capitare ci sembrerà una gemma. L’anno nuovo di buono ha soltanto che non è l’anno vecchio, per questo ci sembra migliore del 2009, ma ancora fino a lunedi 11, poi ritorna lo stesso non preoccupiamoci. Tanto è vero che da oggi si pensa al Carnevale! Aricomincia con i bigné, le frappe, le maschere, mamma mia... Anche se un vantaggio c’è: il 2010 è un anno facile da battere sulla tastiera del computer! Auguri!

PS: riguardo la foto, questo è esattamente il dolcevita nero (Brooks Brothers) che troneggia su un tacco 14 di uno stivale al ginocchio, con il quale accompagnare un filo di perle mezza altezza non coltivate, da far trovare in una poltiglia di ghiaccio al centro della quale svetta una bottiglia di Cordon Rouge, l’unico vero modo di brindare, immersi, c’è bisogno di dirlo? In una nuvola di Oyedo!