mercoledì 28 dicembre 2011
L'arte del riciclo
Lo sguardo crinato, il ciglio sbieco, il sorriso storto. È appena nato un regalo sbagliato.
Non è una poesia di Carducci, ma l’atroce realtà di tutti i Natali. Poveraccio, mi fa una pena sotto quegli sguardi, e tra la sera del 24 e il pranzo del 25, ne sono nati parecchi, tutti fratellini sparsi in giro per il mondo come brutti anatroccoli in cerca di una madre qualsiasi. Stavano tanto bene in una vetrina, perché qualcuno è andato a disturbarli? Stavano lì, con il loro nome e cognome pronti a dare gioia a qualcuno, quand’ecco avvicinarsi minaccioso un imbecille, il loro futuro padre per un attimo, cioè colui che l’acquisterà con disattenzione per regalarlo a una persona che con quel regalo non c’entra niente. Cosa porti a essere così sciatti non si sa: fino a quando si tratta di fare un regalo a un bambino che non capisce niente, passi... anche se in realtà c’è nascosto l’imprinting che già registra chi ha regalato il carillon squinzio made in China, per vendicarsi tra trent’anni regalando un pacco di caffè da poco alla suocera. Ma quando si fa un regalo a un adulto non si può più regalare una cosa sbagliata, con la scusa del “pensierino”: una contraddizione in termini, in realtà non ci hai pensato nemmeno un attimo e mi hai regalato una cosa che mi repelle e che non userò mai o che riciclerò. La somma arte del riciclo è una specializzazione delle persone più attente, quelle che da lontano, su una poltrona, osservano il disgusto di chi riceve, ragionando su chi invece farebbe salti di gioia alla vista del regalo in questione. Sono persone molto intelligenti, osservano, ascoltano, tutto l’anno, ecco perché poi sono in grado di suggerire a chi lo riceve, con un filo di voce per non farsi sentire dagli altri “sai a chi può piacere?”, fornendo una soluzione e molto probabilmente una bellissima figura a chi seguirà il loro consiglio. Un lampo si accenderà sul viso del “ricevente” e il regalo verrà messo in hangar. Alla prima occasione utile, anche fosse soltanto un pranzo da amici con gli avanzi di tortellini, faraone, spigole e gamberoni (tutti riciclati giustamente pure loro), e tra i racconti dei rispettivi e noiosi pranzi, conditi da aneddoti relativi ai comportamenti di chi ha superato gli 80 (tranquilli, ci arriveremo pure noi a certe assurdità) le porte di quell’hangar si apriranno per far spiccare il volo a quel povero regalo sbagliato, che da brutto anatroccolo si trasformerà finalmente in un bellissimo cigno! Insomma tutto questo per dire che non è il regalo a essere sbagliato.
Ma la persona che lo fa.
mercoledì 21 dicembre 2011
Aria di Natale never again
L’aria di Natale è un bluff. Non esiste, si sa: non ha un odore, non ha un nome vero e proprio, non ha un indirizzo, non ha niente, non esiste. Basta. Allora vorrei sapere di cosa stiamo parlando quando un amico incontrato per strada ci dice “Quest’anno l’aria non la sento, boh, chissà perché...”. In realtà sono anni che non la sente, perché quando ancora l’avvertiva andava in giro per negozi con i guanti a manopola stretti nelle manone calde dei suoi genitori e chiedeva ogni 5 secondi “questo lo chiedo a Babbo Natale, e pure questo, e pure questo!”. I genitori lo strattonavano via dalle vetrine e con gli occhi dicevano al negoziante “passo dopo”. A scuola preparava tanti pupazzetti con la maestra, faceva i disegni della slitta di Babbo Natale e imparava che non erano cervi quelli che la tiravano, ma renne! A casa aveva preparato l’albero: un abete piccolo ma vero, quelli di plastica ancora non esistevano, con le palle di vetro, ne rompeva una all’anno se andava bene, rendendolo negli anni sempre più spelacchiato. A passeggio una zia lo portava a vedere le mostre dei presepi napoletani ma lui non li capiva e preferiva quello di casa con le casette con il tetto storto, le pecore piccole che s’incastravano con l’erba fatta di muschio, il cielo di carta viola scuro con le stelle dorate. Mentre il nostro amico comincia a piangere passa uno zampognaro, o quello che ne rimane, cercando non di suonare (mica lo sa fare!) ma d’imitare male un “Tu scendi dalle stelle” per sentire che esce fuori da quella bestia di zampogna lacera e consunta. Un ottimo pretesto per finirla con questo suo sfogo e salutarlo. Ma all’angolo, a UN angolo (non a tutti come oggi tutto l’anno) c’è un caldarrostaio indiano e già che ci sei gli lasci un foglio da 10 euro, ti bruci la lingua, la castagna non sa di niente, una ha il verme, una è dura, ti sporchi la mano, non sai dove buttare il cartoccio. Allora entri in un negozio fai una fila di mezz’ora alla cassa per comprarti il cd di Bublé con le canzoni di Natale, torni a casa e magari qualcuno ti apre la porta. Mentre lo infili nel lettore dài un sguardo in salotto, fa un bel calduccio, l’albero finto è tutto acceso, sul cellulare cominciano i primi sms cui non risponderai e tra le mail ci sono soltanto auguri di gente che non conosci. Ma dalla cucina viene l’odore del brodo per i tortellini e mentre lo avvicini alla bocca, rovente, pensi che dell’aria di Natale dell’amico tuo tutto quello che rimane è un brodo caldo. E va bene così. Tanti auguri!
venerdì 16 dicembre 2011
Guerrucci, l'uomo che sussurra agli stereo
A Roma, in Prati, c’è un posto che andrebbe scolpito nelle rubriche di tutti. È a Via Simone de Saint Bon, ammiraglio (ce ne sono molti a Prati), con una scritta anonima sull’insegna: Assistenza HI-FI. Entrare in quell’antro e uscirne stravolti è un’esperienza che non si dimentica. Perché lì dentro si riparano gli “stereo”. Ma certo, chiamiamolo ancora una volta così, come quando ce lo regalarono al liceo, quell’insieme di giradischi, amplificatore, piastra e casse acustiche, che collegato da cavetti, ci ha fatto sentire la musica che ci piaceva e che ha formato il nostro gusto, come mai più niente ci è riuscito. Non è un’assistenza come siamo abituati a vederle oggi (basta dare il codice e ti sostituiscono TUTTO il telefonino). No, qui dentro ancora si riparano oggetti meravigliosi di un’altra era tecnologica persi nello sgabuzzino di casa. E chi ci riesce è un uomo, Mario Guerrucci, uno di quegli uomini che, cosa rara oggi in tutti i campi, sa dove mettere le mani, e quindi parla italiano con i condensatori, i transistor, i circuiti integrati, conosce le unità di misura, i watt, i Farad, gli ohm, conosce i pezzi, le cinghie, i cursori, piegandoli alla sua volontà per restituirceli di nuovo funzionanti. Andarci per portargli un giradischi bloccato o un amplificatore muto non è frustrante, perché raramente Mario risponde “No, non si può, non lo so” come oggi qualsiasi negoziante risponde. Male che va gli può scappare un “vediamo che si può fare” che c’illumina di speranza, o più spesso un “chiamami la prossima settimana!”. La moglie Maria Grazia, l’ancella di guardia all’antro, sferruzzando una sciarpa senza fine, raccoglie tutti gli sfoghi dei clienti del tipo “funzionava tanto bene da decenni e poi puf!, si è rotto!”, dà una ricevuta e congeda velocemente. Riparare lo stereo è un viaggio dentro noi stessi perché in quegli scaffali allineati uno per uno in verticale ci sono centinaia di “pezzi” che se potessero parlare racconterebbero di come, sconquassati da acne giovanili, mettevamo trepidi il braccetto su un disco dei Pink Floyd, sperando che in 14 minuti la biondina del “I A” ci stesse, o di quando il nostro Luxman da 35 watt per canale sparò tutta la sua potenza al massimo dalle Indiana Line sulla nostra versione di Tacito, uccidendola, poveretta. Questi strumenti una volta riparati da Mario (e che se non ritirati dai soliti pigri rischiano di diventare lapidi al cimitero) custodiscono ancora quelle sensazioni e sono pronti a ridarcele con la stessa fierezza anche oggi. E sapete perché? Perché FUNZIONANO!
mercoledì 7 dicembre 2011
Midnight in Rome
Lo splendido film di Woody Allen “Midnight in Paris” mette sullo schermo una delle domande che ci facciamo durante le cene riuscite, non quelle dove si è chiesto notizie di coso o di quella per fare pettegolezzi, perché non ce ne è stato bisogno né quelle dove si è riso parlando male di qualcuno non presente, che “l’ha combinata davvero grossa a ‘sto giro, ma come si fa?”, né quelle dove non si sono sollevate polemiche inutili, o dove non si è discusso tra madri e figli. Ma quelle cene quelle dove si sono fatte battute molto divertenti: basta tirare fuori una domanda tipo “che cosa ci fareste se doveste vincere 100 milioni di euro al Superenalotto” per stare bene. Un’altra domanda evergreen è “in quale epoca vi sarebbe piaciuto vivere”. Tutti si lanciano nella loro preferita, con gli occhi che brillano di desiderio, ammantandola di magia, di riferimenti più o meno azzeccati, di sogni e di aspettative mal riposte: senza Stilnox negli anni 30? Ma siamo pazzi? Fino a quando uno degli invitati dice la sua, per ultimo, è quello che forse è stato un pochino al margine di questa bella cena, quello che non ha fatto commenti ficcanti, e mentre parla lo si guarda tutti un po’ storditi dal vino pensando “ sentiamo adesso questo che dice...”. E che dice? “A me va bene la mia!”. Purtroppo ha ragione lui, spegnendo i nostri sogni a differenza di Woody Allen che ce li ha fatti accendere con la grazia di chi ha raggiunto 75 anni. Ma purtroppo lo dice quasi con un grugnito chiudendo la conversazione, e forse anche la serata: gli altri commensali, con lo sguardo improvvisamente guasto guardano l’orologio, pensando che ormai è tardi e che domani è domenica e una volta ci si riposava, invece domani devo portare mio figlio a calcio contro quelli del “Villa Flaminia”. Il padrone di casa pensa invece che forse non è più il caso d’invitare questo che non parla mai e quando parla azzera tutto, e gli chiama un taxi, perché nessuno vuole accompagnarlo: non gli danno la sigla ma con un saluto frettoloso gli dicono “adesso arriva, scendi!”, per mandarlo via e fare un commento anche su di lui. Ma il taxi tarda e nel frattempo comincia a piovere, come nel film: lì si dice che Parigi forse è ancora più bella con la pioggia, figurati Roma, no? E sarà proprio grazie alla pioggia e all’attesa che non potrà fare a meno di notare quella biondina senza ombrello e che si fiderà di lui quella sera nell’accettare un passaggio su un taxi da uno sconosciuto. Che vuole vivere il suo tempo. Oggi.
mercoledì 30 novembre 2011
Profumi 2
Finimondo: dopo l’ultimo pezzo sui profumi, i commenti si sono scatenati per comunicare le ingiustificate assenze da quella lista che era un collage personale di vecchie sensazioni “mosse” dai grandi classici della profumeria mondiale più che un elenco di “must have”. Ma, secondo le vostre giuste segnalazioni, oggi la completo aggiungendo almeno due grandi case profumiere. Penhaligon’s: bisogna cominciare dalla bottiglia, il solo maneggiarla ti catapulta nel 1870, l’anno in cui venne fondata dal suo omonimo creatore. Forse fu proprio questo il motivo, la macchina del tempo, che spinse Franco Zeffirelli a un certo punto della sua vita, ad aiutare una sua amica stilista, Sheila Pickles, che ritrovò in una cappelliera qualche ricetta originale , ad aprire il piccolo e ormai storico negozio a Covent Garden, a Londra, l’unico posto dove si è autorizzati dalle proprie paranoie a comprarlo, per provare il brivido di essere trattati male mentre si cerca di pronunciare correttamente il nome dell’essenza: “Blenheim Bouquet”.
Per Creed (since 1760!) va invece fatto un discorso a parte, personalissimo. I campioncini che personalmente odio (non sai dove metterli, si aprono a tradimento, non li trovi mai e se li trovi ti mettono in difficoltà: “come mai sta qui nel pigiama?”) mi sono stati utili, per una volta almeno, per individuare il nome di un’essenza Creed in un fortunatissimo incontro della mia vita con Quincy Jones, il più grande produttore di musica black di tutti i tempi! Dopo una lunga chiacchierata in cui abbiamo dissertato di come fosse mai possibile che Michael Jackson, da lui prodotto all’epoca, fosse stato denunciato per plagio per avere copiato una canzone di Al Bano, dopo esserci salutati con un abbraccio fraterno (hey brother!), una fitta mi prende al naso e riconosco uno dei campioncini di quel Creed, ma il nome? Quale poteva essere il profumo di Quincy? LO VOLEVO SUBITO! Corro a casa, li apro tutti e finalmente leggo il nome “Green Irish Tweed”. Ma che c’entra con Quincy? - mi chiedo. Volo in profumeria e chiedo la boccia più grossa di quel Creed. Vederla e capirlo è stato un attimo: era TUTTA NERA, anche le scritte! Che genio! Il suo profumo, nero come lui, e da quel giorno, ma solo quando voglio sentirmi jazz, o meglio, cool, con due gocce non sono in Irlanda ma nell’orchestra di Quincy Jones!
giovedì 24 novembre 2011
Profumi
I profumi che ci hanno accompagnato nella vita messi uno vicino all’altro possono addirittura diventare come un album di fotografie suddividendo la nostra esistenza in epoche: “Qui usavo Dior, qui invece Calvin Klein”. Quali sono i profumi che ci hanno resi schiavi della loro fragranza? Potremmo parlarne per ore, semplicemente perché si entra nel mondo dei gusti personali e quindi ognuno ha i suoi. Però certi classici hanno anche la loro storia, dalla quale si può essere sedotti, come il Vétiver o Habit Rouge della Guerlaine, dedicato quest’ultimo ai cavalieri e alla loro divisa appunto: quando si saluta un amico che non si vedeva da tempo e questo indossa uno dei due profumi, capirete all’istante che è a lui che vorrete confidare tutti i vostri segreti. Roger Gallet, una marca che pronunciavamo solo a Natale per regalare le saponette a Nonna, in realtà è anche e soprattutto la casa dell’Eau Imperiale, l’acqua di Colonia che ci fa sentire re anche se il ricordo più forte ce lo restituisce solo la 4711, agrumata, che ci fa tornare bambini freschi freschi di bagnetto cosparsi di Borotalco, Robert’s ovviamente, pronti per andare a nanna, anche senza Carosello. Ve lo ricordate quell’uomo appoggiato a una sbarra d’acciaio con addosso un asciugamano a nido d’ape in bianco e nero? Volevate essere così, semplicemente: bastava fare uno splash-down di Eau Savage di Christian Dior, e il gioco era fatto, oggi poi che hanno ritirato fuori quella foto di Alain Delon, senza sigaretta però, sempre in bianco e nero (per forza: siamo tutti più belli!), la sensazione di essere semplicemente inarrivabili per chiunque sarà ancora più violenta. C’è un profumo che solo il nome, “Halston Z14”, basta a sentirsi internazionali: mi trovo già in un aeroporto hub mondiale, nella lounge della very first class, alla top of the list. Fatto! E ve lo ricordate Caron? Ma che gli vuoi di’ se anche le donne lo hanno utilizzato a litri? Certo mai nessuna è riuscita a farlo così come Jacqueline Bisset usava Equipage e quella sua bottiglia fantastica con il tappo di radica. Trucco che non riesce al contrario: ve lo immaginate un uomo che porta Chanel N° 5? No, è impossibile. Riesce solo con un profumo della Diptique, la casa che produce anche le candele che ti fanno sentire subito a casa di Luchino Visconti, si chiama Oyedo, l’antico nome della città di Tokio. Due gocce di quel rosmarino pazzesco addosso e uomo o donna saranno due prede del delirio di tutti: e tutto questo solo con due gocce di profumo. Ci rendiamo conto o no?
lunedì 14 novembre 2011
Zecchino d'Oro
“È sempre colpa dei genitori!”. È vero? Non è vero? E Bollea allora? Che diceva che le madri hanno sempre ragione? Ma nella ricerca sfrenata di un qualsivoglia talento del figlio, non c’è regola che tenga: “MIO FIGLIO FA, MIO FIGLIO È!” Soprattutto artista, attore, cantante, ballerino, musicista, insomma “on the stage!”. Perché questi genitori non si rassegnano al fatto che il loro figliuolo andrebbe assecondato ed eventualmente aiutato a scegliere quello che piace a lui e basta? Magari lo studio, pensa che roba! Invece no, deve andare in scena sempre! Che poi sia chiaro, questi padri e madri fanno sempre il paio con quegli altri che accompagnano i loro ragazzini a nuoto col cronometro, o ad atletica, o a scherma o dove vi pare ma sperando che raggiungano quei risultati, da podio, un altro palco che, evidentemente, loro non sono riusciti mai nemmeno a sognare.
Noi tutti ricordiamo quei giorni della nostra infanzia quando il portiere di casa annunciava che a giorni sarebbero arrivate per posta le cartoline per partecipare alle selezioni dello Zecchino d’Oro, col mitico Mago Zurlì e il Piccolo Coro dell’Antoniano di Bologna diretto da Mariele Ventre! Ma quando mai? Non arrivava niente, se non la presa in giro del portiere stesso: “ma quale Mago Zurlì, al massimo ti chiama Richetto!” (che, per la cronaca, era Peppino Mazzullo, voce di Topo Gigio). Le canzoni erano filastrocche per bambini che ancora stavano attaccati al giradischi di casa con le fiabe sonore della fratelli Fabbri e il disco che cantava “a mille ce n’è, nel mio cuore di fiabe da narrar...”. Avete mai provato a trovare da un rigattiere quegli album enormi? A Trieste per esempio esiste “La Rigatteria”: uno sguardo alle illustrazioni di Pikka per i “Musicanti di Brema” e le lacrime righeranno quelle pagine tanto da dovervi scusare ricomprando ciò che apparteneva al vostro cuore da sempre. Ma non stiamo parlando dello Zecchino d’Oro, ma di quei programmi che vanno in onda di questi tempi e io francamente non ce la faccio ad ascoltare una bambina che canta “e se domani io non potessi rivedere te”: a chi si riferisce? A quell’età solo ai genitori, che farebbero meglio a fare gli scongiuri invece di trepidare per quella figlioletta con in bocca parole da grandi e dare quindi ragione a Renato Rascel quando già nel 1970 cantava “dodici anni sono pochi per sentirsi donna”. Oppure un maschietto che canta “I migliori anni della nostra vita”: ma che vuol dire, quando ha tutta la vita davanti? Il problema alla fine è sempre quello: ma questi genitori invece di far credere ai loro ragazzi di poter diventare Mina o Renato Zero, perché non fanno due passi con loro per andare al cinema o a teatro? Per potergli spiegare che c’è un tempo per tutto e invece di andare in uno studio televisivo a cantare canzoni che non gli stanno in bocca, potrebbero confessare senza paura cosa gli piacerebbe fare. Da grandi, non ora. Ora si studia. E domani è un altro giorno e si vedrà. Come diceva Ornella Vanoni: a 37 anni però!
lunedì 7 novembre 2011
Oro puro
“ORO PURO”, così Walt Disney definì il suo cartone animato realizzato nel 1942. A cosa si riferiva? Alla storia del cerbiattino che crescendo attraversa la sua linea d’ombra sopportando addirittura la morte della madre (ed è per questo che dovrebbe essere vietato ai minori di 18 anni) e che alla fine del film diventa rispettato come il padre? O forse si riferiva agli amici che Bambi si ritrova accanto, come Tamburino? O forse alla spensieratezza di quei giorni felici quando il problema più grande della sua vita era imparare a pattinare sul ghiaccio? Mah: fatto sta che con la parola “oro” si definisce qualcosa di prezioso e con la parola “puro” qualcosa d’incontaminato. Quindi forse è così che dovremmo definire gli anni della nostra vita che vanno dai 10 ai 14, gli anni in cui un cervello riesce a far coesistere la purezza di certi ragionamenti con le prime belle deduzioni coscienti. Anni che rimpiangeremo quando guardando una foto ci riconosceremo per quello che saremmo diventati senza saperlo. È per questo che quando oggi si ascolta un ragazzino di quell’età è difficile restare indifferenti ai suoi ragionamenti, quali che siano, perchè sono impastati di una grazia irripetibile e disarmante, e anche perché non sono ancora “sporcati” dagli ormoni. Eppure per Disney furono anni d’inferno, non se lo filava nessuno, andava in giro a portare disegni a destra e a sinistra con idee che allora sembravano assurde. Ma da uomo, anni dopo, si ritrovò a passeggiare in una città da lui costruita e che portava il suo nome: Disneyland! I fatti quindi gli hanno dato ragione. Mi chiedo quindi se c’è un’età per dire “io questo non lo posso più fare”? Esiste un’età perché si smetta di sognare che una città possa chiamarsi come te? Io dico di no, perché quell’oro che una volta ci brillava in faccia adesso si è semplicemente spostato. Dentro di noi. Trovarlo non è difficile: si tratta di “recuperare” quello che ci piaceva veramente a quell’età e sentire se ancora lo apprezziamo. Se la memoria non aiuta (ormai il nostro “hard disk” si sta riempiendo sempre di più) tocca prendere tutti i libri che si hanno e tenere SOLO quelli che ci piacciono ancora, che ci ricordano qualcosa o che stimolano la nostra curiosità. Stessa operazione per dischi e cd, vestiti, oggetti, ricordi, mobili, pentole, tutto! Sono questi oggetti che, in un modo o nell’altro, ci hanno costruito aggiungendosi come una seconda pelle al nostro carattere, quello di “default”, quello del DNA per capirci. Bene: in quel che rimane c’è il NOSTRO ORO, intatto, è lì che risiede quello spirito che ancora oggi ci commuove mentre riguardiamo una foto dai colori sbiaditi con un colletto della camicia assurdo e un taglio di capelli improponibile. Avere la propria scorta d’oro personale ci solleverà dal piombo degli ultimi anni.
Tra l’altro l’oro, di questi tempi, vale molto: in un anno è passato da 1424 a 1745 dollari l’oncia, rendendo quindi il 26 % in più. Poco?
lunedì 31 ottobre 2011
Quelli che
Quelli che non hanno mai soldi spicci, in nessuna situazione, spesso alla cassa del supermercato, in fila, o peggio contando con una lentezza esasperante gli ultimi centesimi dicendo “ce la faccio, ce la faccio” e invece poi non ce la fanno e finalmente tirano fuori il pezzo da 50: quindi tre operazioni invece di una!Quelli che ti stanno sempre addosso anche negli spazi vuoti, tipo quelli che in farmacia ti stanno dietro le spalle ascoltando tutti i tuoi malanni, o che nel bagno turco o al cinema ti siedono accanto anche se è vuoto come un forno. Vogliamo parlare un attimo anche di quelli che si sposano? Sempre a luglio, col caldo, sempre di sabato, meglio l’ultimo del mese, rovinando il weekend, quello nostro: loro partono il giorno dopo. Quelli che dal dottore, con la sala d’attesa piena, comunque non guardano nessuno e provano a dire alla segretaria “io devo chiedere solo una ricetta”. E i rappresentanti delle case farmaceutiche?Che solo dopo un po’ che li guardi capisci che stanno benissimo e non gli serve niente ma devono rifilare al tuo medico tutti quei blocchetti di carta con il nome della ditta o quelle penne orribili e i campioncini che scadranno prestissimo?E che tanto lo sai che alla fine le medicine sono sempre quelle tre, che Aulin è più forte dell’Oki e che ci devi prendere sempre un protettore gastrico se non ti fa male lo stomaco? E invece quelli che sfilano il bancomat allo sportello e invece di andarsene, lo rinfilano perché si sono ricordati di dover fare un’altra operazione, illudendoti che finalmente sia il tuo turno? Per non parlare di quelli che si appostano per un parcheggio che si sta liberando e se ti avvicini ti ringhiano addosso “c’ero prima io!”. E se per caso sei tu che stai liberando un parcheggio loro arrivano come falchi e ti mettono fretta con lo sguardo. Sono gli stessi che però, se sono loro a liberarlo, fanno finta di non vederti e ci mettono tre ore a infilarsi i guanti, poi il casco, poi si accorgono di avere messo il bloccaruota e si rilevano i guanti, non trovano le chiavi perché le cercano in tasca, quando stavano già infilate sull’accensione e poi ti sorridono pure perché loro ci mettono il tempo che serve e quindi devi avere pazienza: tu, con loro. Quelli che sulla banchina della stazione del metrò non aspettano che tu esca dal vagone, anche se è pieno come un uovo, no: entrano prima loro perché hanno paura di perderlo, stesso discorso per gli autobus, stesso discorso per il treno, dimenticandoci dei taxi, quando piove. E quando piove? Quando stai attento a non bagnarti, quelli che non vedono la pozzanghera, chiamiamola pure lago, perché stanno al telefonino e con lo sguardo cercano solo di prendere il verde e col pensiero di seguire il discorso e ci piombano sopra creando dal nulla uno tsunami che ti investe, ovviamente solo a te.
Insomma sono quelli che “veniamo sempre prima noi” e non si accorgono invece che quelli come noi sanno che al mondo esistono anche quelli come voi.
mercoledì 26 ottobre 2011
Golden Brain
Quello che mi irrita del tempo che avanza è che ogni giorno in più imparo qualcosa che mi è stata già insegnata in tempi non sospetti quando non avevo il cervello per capirlo. Faccio un esempio: quando vedevo mia Nonna che, per lavare un piatto, apriva lentamente l’acqua dal rubinetto per farne uscire poca, io isterico le dicevo, o meglio urlavo: “Nonna, aprilo tutto, così fai prima!” e lei con la rabbia di chi sa, mi rispondeva giustamente a denti stretti: “Se l’apro tutta, l’acqua schizza da tutte le parti, che ne sai tu? Stai zitto!”. Oggi, solamente oggi, capisco che aveva ragione semplicemente perché dopo 100 camicie bagnate non mi va di starle ad asciugare solo perché non mi ricordo di aprire lentamente il rubinetto dell’acqua. Ed ecco, come per magia, che mi sorprendo a farlo in automatico, per esperienza. All’epoca della spiegazione non avevo la testa per capirlo, pensavo a fare tutto in fretta e basta, per avere il cervello libero di pensare ai miei sogni e un piatto lavato senza bagnarsi era l’ultima cosa che occupava il binario tra due sinapsi. In realtà, a pensarci bene, si trattava d’imparare a fare previsioni, riuscire a vedere un po’ più in là, riuscire a immaginare quale reazione potesse scatenarsi da una nostra azione avventata. Insomma avessi saputo che invece di chiedere alla ragazza più carina di uscire genericamente con me, sarebbe stato meglio arrivare con due biglietti per andare a sentire un concerto, avendo pronto anche un piano B: in caso di diniego, portarci la più brutta della classe!
Adesso, finalmente, uno studio ha rilevato che l’età d’oro del cervello la si raggiunge dopo i 55 anni, sarà allora che saremo più perspicaci o semplicemente più attenti, vigili, insomma in una parola: smart! Basta errori di valutazione, solo a quell’età diventeremo 007 del pensiero, capiremo i comportamenti di tutti i nostri amici, e sul lavoro potremo raggiungere vette che prima ci sembravano inaccessibili. Per non parlare di come richiedere un mutuo: non andremo con la voce tremolante timorosi della reazione del direttore, ma come se fossimo titolari dello stesso sorriso di George Clooney, cui è difficile dire di no. Una partita di burraco? Si vince senza fatica; le parole crociate della Settimana Enigmistica? Si va subito al Bartezzaghi tralasciando quelle facili della copertina o ci si fionderà sui rebus riservati agli enigmisti più esperti. Oggi quindi siamo ancora dei ragazzi che devono crescere per fare meglio o con minor sforzo un sacco di cose. Che meraviglia! Posso ancora sbagliare, arrivare tardi a un appuntamento di lavoro e avere quell’aria scanzonata di chi non ha ancora capito che cosa sta rischiando. E proprio mentre penso tutto questo non mi accorgo che sto sciacquando quel bicchierino del caffè che ho appena offerto a una ragazza con un getto troppo schiumante d’acqua calda. Ma vuoi mettere il suo sorriso?
- Riccardo, sei proprio un bambino...!
Sì, qualche volta sì, ancora per un po’, qualche volta sì...
mercoledì 19 ottobre 2011
Per una volta che si dice la verità...
Per una volta che uno dice la verità... Quante volte ce ne siamo pentiti? Una confidenza a un amico, una lettera scritta a caldo, uno sfogo spontaneo, la debolezza di un momento. Purtroppo prima o poi ci si pente e si pensa “era meglio stare zitto...”. Ma perché? Non è meglio dire la verità? Non ci hanno insegnato da piccoli che le bugie hanno le gambe corte e che prima o poi la verità viene a galla? E solo a galla poteva rimanere questa verità giusta, sana e che non ha un pelo che è uno da nascondere. Certo, perché stiamo parlando di una ragazza, Federica Pellegrini, che le gambe ce le ha lunghe, e a galla ci deve rimanere per essere più veloce della luce in una piscina lunga 50 metri (tra parentesi: l’avete mai vista dal bordo piccolo una piscina così lunga? Il Tirreno in confronto è una pozzanghera!).
Alla domanda se farebbe da portabandiera alle prossime olimpiadi di Londra ha risposto: “Otto ore in piedi, mezza giornata sulle gambe non si recupera tanto facilmente, considerando che il giorno dopo ho le gare”. Che le volete dire? Niente, ha ragione e basta. Perché stiamo parlando di una ragazza che al posto delle gambe ha delle pinne, e al posto della braccia due eliche, stiamo parlando di una ragazza che sceglie con molta attenzione la canzone da ascoltare con l’iPod un secondo prima di salire sui quei blocchi di partenza, perché quell’ultima nota strappata alla vita da bipede si tramuti in un pieno di carburante al massimo degli ottani, in un mantra che nessuno conosce, in una motivazione da fuoco d’artificio, nella vita di un pesce per una sola manciata di secondi. Ed è in quei secondi che gambe come quelle roteano come lame che non vorrei avere accanto nemmeno in sogno. In quei secondi quella ragazza frantuma metri cubi d’acqua nello stesso modo in cui i neutrini volano attraverso l’universo, la sua pelle si trasforma in squame di teflon, e l’acqua le fluttua accanto stupefatta chiedendosi “cos’è quella roba più liscia di me?”. E quando poi quella ragazza vince e sale sul podio, quando sente l’inno nazionale, quel Fratelli d’Italia che bello o brutto è il nostro inno, piange di gioia, e noi con lei. È lì che la voglio vedere in lacrime, non per reggere quella bandiera per 8 ore in piedi per la quale darà COMUNQUE tutte e due le sue vite. Tirando fuori tutta la sua verità. Che normalmente si fa in confidenza a una compagna di squadra, insomma roba da spogliatoio, un dietro le quinte, un retroscena di addetti ai lavori dove ci si confida l’onore di portarla e il dispiacere di non poterlo fare perché il giorno dopo si hanno le gare. E la bandiera? Chi la porta allora? Come sempre qualcuno che ha già sudato e forse solo sognato di arrivare a una medaglia se non almeno a una finale. E in ogni caso faccio presente a tutte le federazioni che se non trovassero nessuno, in alternativa la bandiera la porterei volentieri io, perché tanto il giorno dopo mi faccio un bel pediluvio con i saltrati Rodell!
venerdì 7 ottobre 2011
Se Steve se ne va...
Un giorno dei primi anni 80 chiesi a un signore che aveva un brutto negozio vicino casa mia (ma con una mela colorata a strisce sull’insegna troppo bella per non entrare e chiedere), che cosa potevo farci con quello che vendeva: un computer. Risposta: “Se non lo sai tu, come faccio a dirtelo io?”. La differenza tra Steve Jobs e tutto il resto del mondo dei computer è in questa stupida risposta: perché Jobs, dall’America, con un semplice marchio accattivante, era riuscito a portarmi dentro un negozio che vendeva i suoi prodotti e quel signore in un quartiere di Roma a farmene uscire in un secondo!
Anni dopo, con già svariati Mac alle spalle, durante una cena mi sono ritrovato tra le mani un oggetto grande come un pacchetto di sigarette, era il primo modello di iPod e dentro erano caricati i “Duets” di Frank Sinatra e il best “1” dei Beatles. TUTTI LI’ DENTRO? In un secondo ho visto morti tutti i miei LP, tutti i CD che mi ero ricomprato, e tutte le cassette con le quali andavo ancora in giro con un walkman giallo della Sony! Tutto finito! E sempre per colpa e per merito di quest’uomo ho “interrotto un rapporto” che durava dal 1995 con la Nokia, l’unica marca che riusciva ad avere un interfaccia abbastanza comprensibile da un uomo alle prese con un telefonino: adesso con l’iPhone mi sento a posto. La grandezza di Steve, il mio rapporto con lui, è questo, assurdo, ma è questo: con i suoi prodotti tra le mani mi sento meglio, sto più tranquillo, riconosco tutto e capisco tutto. Non a caso uno dei lanci delle sue campagne diceva “Non vorrete certo sapere come funziona un computer...”, ed è vero, a noi che ce ne frega? Basta che funzionino, lo accendi e basta! E ogni volta che lo accendiamo è come se stessimo sul suo, ecco perché Steve Jobs ci mancherà da morire, era lui che li rendeva facili per noi. Il problema più grande adesso riguarda la Apple e quelli che ci sono rimasti: martedi scorso durante la presentazione dell’iPhone 4S avevano tutti il cervello in pappa sapendo probabilmente che Steve li avrebbe lasciati per sempre da lì a poche ore. Ma in passato era proprio lui che nelle riunioni ordinava:
- L’iPhone lo voglio con UN pulsante solo, e basta!
- Ma Dottor Jobs, è impossibile: i numeri sono 10!
- Allora niente! Andate via! Fuori!
Quelli ci ripensavano e poi ci riuscivano. Quegli ordini, figli dei sogni di Steve Jobs, mancheranno molto alla Apple, e forse anche a noi. Nel frattempo, aspettando nuov idee realizzarsi non potremo fare altro che buttarci dentro uno degli Apple Store per respirare ancora quell’aura “magic” da lui così magistralmente creata. Gli altri negozi, come quello dove tanti anni fa mi risposero in quel modo assurdo, possono anche chiudere. Perché Steve Jobs, il loro miglior commesso, è morto.
giovedì 6 ottobre 2011
lunedì 3 ottobre 2011
Una casa vuota
Un mio amico indebitandosi fino a 70 anni, o forse 75, si è comprato casa. Oh, finalmente, forse un po’ in ritardo per essere un italiano, forse un po’ in ritardo per appartenere a una media borghesia che in qualche cascame ancora esiste, ma forse proprio per mettere un punto fermo nella sua vita (anche se non gli importa così tanto: fosse stato per lui si sarebbe comprato una barca, non è sposato e non ha figli) alla fine ha deciso di compiere questo acquisto così importante. Mi ha chiamato per vedere la casa prima di cominciare a fare i lavori. La casa era vuota, nuda e cruda, in buono stato, una tabula rasa dove mettere le mani per potersi costruire la tana a propria immagine e somiglianza. Si prova quell’eccitazione di avere in mano una tavolozza piena di colori e una tela bianca che aspetta solo di essere imbrattata, anche se per molti è un incubo (non escludo che, in un impeto di rabbia, Fontana si sia inventato quello squarcio e poi sappiamo come è andata a finire!). Le case vuote, liberate da poco, hanno sempre lo stesso aspetto portando addosso i segni di chi le ha abitate per anni. Chi ci entra vede sempre i loro fantasmi: un foglio di carta per terra, qualche libro abbandonato, la polvere negli angoli nascosti dai divani e ovviamente le ombre lasciate dai quadri. Si può capire tutto degli abitanti precedenti vedendo queste tracce: gusti, preferenze, abitudini, e quando la cucina viene lasciata, nei pensili rimangono avanzi di biscotti, una farina scadutissima, un pacchetto di cracker: sembrano quasi gli avanzi di una razzia. E come in una lastra a raggi X, in trasparenza e in negativo, vedi tutto. Intuisci la vita che ci è stata, le gioie, i dolori, le miserie umane che appartengono a tutti noi. Che paura! Ma è un attimo: bisogna pensare a noi, al futuro che ci aspetta in questa casa bella, da rinfrescare certamente: “bisogna cambiare gli infissi, bisogna rifare l’impianto elettrico, il riscaldamento, l’aria condizionata, ahò, ma quelli prima come facevano? Il mutuo già l’ho preso, adesso pure un prestito?!”.
Ma pensando alla tabula rasa, vorrei dare un consiglio al mio amico. NON CI METTERE NIENTE! Prima di trasferirti da quel residence che diventerà a sua volta un altro luogo dove fare i conti con se stessi per qualcun altro, fai una cernita di quei quattro stracci del tuo passato e porta solo il meglio nella tua nuova vita! Tu lavori, quando non lavori vai in barca, hai sempre abitato in affitto, hai poche cose, beato te, e così devi rimanere, come un San Francesco del 2011. Vestiti? Ma quanti ne avrai? Stai sempre in giacca e cravatta e nel tempo libero stai in costume: porta 7 vestiti e 10 costumi, 2 jeans e 10 magliette, porta solo le cose che usi e basta. I libri, solo quelli che hai letto e quei tre che avevi sul comodino. Porta la tua musica, tutta, ma soprattutto porta te stesso e quello che potrai diventare là dentro e che ancora non sai di essere, e ricordati quello che diceva mia Nonna: “la bara non ha tasche”. Ti saluto.
lunedì 26 settembre 2011
Un certo matrimonio
La scusa per andare a un matrimonio è quella che tra amici e parenti c’è sempre qualcuno che ti dice “magari conosci la donna della tua vita!”, ma non succede mai perché ai matrimoni difficilmente ci vanno ragazze che hanno bisogno di un matrimonio per conoscere qualcuno, ci vanno solo quelle che non vedono l’ora di sposarsi, quindi meglio evitare. Tra l’altro quel banchetto, preparato come se nessuno avesse mai mangiato nella sua vita, è un attacco ai valori di trigliceridi e colesterolo, autorizzato solo dall’evenienza, dal quale ci si riprende solo dopo giorni e giorni di acqua e minestroni in flebo. Quindi no e basta. Ma quando arriva l’invito, la partecipazione (io le conservo tutte, per controllare quante unioni hanno retto negli anni, ma ne parliamo un’altra volta), rappresenta ancora per un attimo la possibilità di assistere LIVE al momento in cui due persone si giurano amore eterno. È per questo che, banchetto o no, la cerimonia non andrebbe comunque mai disertata. C’è un gioco delle parti bellissimo, rispettato da tutti i personaggi con calore e sentimento. Il futuro sposo che arriva prima con qualche amico fidato (che la sera prima gli ha organizzato l’addio al celibato, hanno ancora i volti tumefatti dalla qualsiasi). I primi parenti, quelli che non si vedono mai (sono quelli più sovrappeso, sono gli stessi di Natale), la madre della sposa con le amiche, le amiche della sposa che si guardano attorno in cagnesco e poi, con il classico quarto d’ora di ritardo (la mezz’ora è appena appena tollerata, dai 40 minuti in poi sei solo maleducata) arriva la sposa in un’automobile comunque assurda in compagnia di un padre con in tasca l’assegno per pagare i musicisti e il fioraio dell’addobbo in chiesa. Dopo i saluti comincia la recita: stupenda! Entra il prete, allegro. Il padre parte con il piedino e accompagna lentamente sua figlia all’altare per vederla solamente da dietro mentre le lascia la mano per prendere quella dell’orco che l’aspetta là davanti come uno scemo. La madre di lui comincia a piangere, pensando “chissà come quella strega tratterà il mio cucciolo”, ma subito si riprende pensando a quante domeniche potrà rovinare a casa sua. La madre di lei non piange, pensa a quanto tempo dovrà dedicare ai pannolini e all’intrattenimento dei futuri nipotini, diventerà nonna presto. Il padre di lui pensa ai buffi che dovrà fare per aiutare suo figlio per mantenere questa nuova famiglia. Tutti ci credono. Sono meravigliosi. E tutti gli invitati si sentono come il 12° giocatore in campo, partecipando appunto a quest’orgia di sentimenti.
Ma giorni fa, in Puglia, a Monopoli, qualcosa è andato storto: alla domanda “vuoi tu ecc ecc?” lo sposo ha risposto con calma un bel “NO”. - “Vuoi ripetere figliolo?” - “Ho detto no”. - “Posso chiederti il motivo?”- “Chiedetelo alla sposa e al suo testimone!”. Cosa avreste dato per essere lì, spettatori di un’unica replica? Un po’ come essere stati una sera alla Bussola con Mina senza sapere che sarebbe stata l’ultima: fantastico, tutto all’aria, tutto a monte, il banco è saltato! E tra la rabbia, la disperazione e lo stupore generale, il mancato sposo è andato pure al banchetto, ma solo con i suoi parenti, a festeggiare il ritorno al celibato!
Dimenticavo: “la sposa era bellissima”. Si dice così, no?
lunedì 19 settembre 2011
Il primo giorno di scuola
Il primo giorno di scuola, o di quel che ne rimane, è la prima ineguagliabile “rottura” di qualcosa nell’animo umano. Qualcosa che si rompe definitivamente tra il cordone ombelicale (vero e psicologico) tra un bambino e il genitore che lo accompagna. All’asilo si era troppo imbecilli per capire che succedeva, il rotolino con la stella filante, tirarsi in faccia qualsiasi cosa, piangere sguaiatamente, insomma niente. No, alla prima elementare ci si va come si va in ufficio da grandi, come tuo padre, come tua madre. Si è trepidanti come quando ti fai un’iniezione per la prima volta, hai paura ma fino a quando non provi quell’ago malefico, non saprai mai se fa male veramente. Quella mattina, una volta era il primo ottobre e basta, l’aria a casa era diversa, tutti si alzavano un po’ prima, i vestiti da mettersi erano già pronti sulla sedia dalla sera precedente. Durante la colazione tua madre preparava un panino (pane burro e zucchero) da mettere nella cartella. Nella cartella c’era un corredo: un libro, un astuccio con le matite colorate (Giotto, l’odore straziante di quel legno ci perseguiterà tutta la vita), un barattolo di Coccoina, (altro odore capace di farci piangere oggi all’istante) e basta. Ed era tutto, sempre per la prima volta, di proprietà, la nostra, che non fosse un giocattolo. No, queste erano cose serie. Attenzione adesso, un’automobile esce di casa, dentro il cast è completo e il silenzio è assordante, rotto solo dall’entrata delle marce e dall’aumento dei giri del motore. Tutti all’interno sanno che sta per cominciare una cosa importante e le domande curiose del bambino non vengono soddisfatte dalle risposte vaghe dei genitori. Si arriva fuori da scuola, e solo per il fatto che c’è gente lì davanti, torna un po’ di allegria, tanto per vedere chi c’è. Qualche amico dei genitori, vicino di casa, con suo figlio attaccato come un panda all’albero, insomma gli sguardi s’incrociano tra facce già viste e volti completamente sconosciuti, tra i quali, gli unici sorridenti, quelli delle maestre che anche loro ricominciano oggi un quinquennio di vita con bambini di cui non sanno nulla e che alla fine dell’ultimo anno conosceranno meglio di chiunque altro, per sempre. Tutti raccolti nel cortile per capire in quale classe si deve andare inizia uno psicodramma: bambini che cercano con lo sguardo qualche amichetto dei giardinetti, bambine attaccate alle madri, maestre che guardano fogli di elenchi, genitori che si rassicurano della sezione, e un uomo che guarda la scena in attesa, come una specie di Caronte, di chiudere il cancello. In un attimo, senza un perché, le mani dei bambini allentano la presa da quelle molto più grandi dei genitori che improvvisamente si sentono abbandonati, il cancello si chiude, i bambini danno le spalle lasciando agli sguardi di chi li segue da dietro la visione delle cartelle colorate. Caronte chiude a chiave e davanti a lui ci sono solo persone che piangono.
La loro vita è finita. Comincia quella dei figli.
domenica 11 settembre 2011
Quando finisce un'estate
Dall’oggi al domani, è così che finisce l’estate. Non rispetta la sua data ufficiale delle cose tipo equinozio e solstizio (la differenza la sai solo alle elementari, poi te la scordi insieme alla tabellina dell’8 e ad altre centinaia di cose che impari troppo presto). Non aspetta il ritorno dalle vacanze, (si torna a lavorare, ma l’estate non è finita, te ne accorgi dagli impiegati di tutti gli uffici vestiti come in uno stabilimento pur di sfoggiare il tatuaggio nuovo). Non aspetta nemmeno il cambio del tempo (può venire giù il finimondo, ma un’ora dopo fa caldo di nuovo). No, l’estate fa come le pare, e quindi improvvisamente finisce, senza preavviso. Ti alzi una mattina, ti fai la doccia, vai in ufficio, leggi le mail, lavori, pausa pranzo, telefoni, brighi, palestra, spesa, figli, cena, letto e il giorno dopo ricominci da capo mentre l’estate finisce, da sola, dentro di te. Magari il barista non ti ha fatto lo stesso saluto, o per un momento l’hai visto che non si ricordava qual era il “tuo” solito; forse al supermercato cercavi le pesche e hai visto che ci sono già le arance (dall’Argentina); ti hanno fatto una multa al motorino e cercando un vigile dal volto familiare scopri che li hanno cambiati tutti quando tu non c’eri (che è un po’ come se ti cambiano la maestra all’ultimo anno). In tutti questi microtraumi ti sembra di fermarti, in trance, sull’orlo di un precipizio: sei salvo, ma stavi per morire. È quindi quell’attimo immenso che ti vede riflettere in un limbo bianco nella tua testa quando tutto attorno a te sembra avvolto dall’oscurità più profonda. È finita l’estate, se ne è andata anche quest’anno, l’estate si è rotta, l’estate, in una parola, è morta. Questa stagione che deve la sua fortuna alle scuole chiuse, è la responsabile di tutte gli struggimenti che gli artisti da Bruno Martino (“Estate, sei calda come i baci che ho perduto”) fino a Franco Califano (“E la chiamano estate, questa estate senza te”) hanno messo per iscritto nelle loro canzoni. Quando le sentiamo ci si gonfia il cuore perché tra le pieghe di quei versi è ovvio che ci siamo noi e i nostri ricordi, soprattutto quelli più banali, come quelli di un’estate, appunto, al mare. Ma alzi la mano chi di noi, quando aveva il cervello in pappa, quando i neuroni erano ancora pronti a moltiplicarsi, non ha vissuto momenti con i grilli, le lucciole, l’aria tiepida, la risacca del mare, il pattino sulla spiaggia fredda e umida, con la biondina di chissà dove. È questo il motivo per cui sentiamo qualcosa che si rompe dentro quando l’estate ci saluta: sembra sempre un addio e mai un arrivederci. Anche perché i ricordi non saranno più quelli, così luccicanti, tanto è vero che cosa ricorderemo di quest’estate 2011? Se diamo uno sguardo ai giornali vecchi prima di buttarli nella differenziata, noteremo in ordine sparso: l’uragano Irene che ha risparmiato New York, l’Euro e le borse che invece ancora ci stanno in mezzo, e la “valanga di chimica” di Vasco Rossi. Ma oggi, 10 anni fa, l’estate di tutto il mondo finì, forse per sempre, a Manhattan.
lunedì 5 settembre 2011
Un tè avvelenato
Prima di fare il conto di quel che rimane di quest’estate 2011, arriva pelo pelo l’ultima follia che ci permette di chiacchierare con gente che conosciamo poco in una delle prime cene pre-autunnali, prove generali di quelle che ci vedranno sicuri protagonisti. Si tratta dell’idea della Twinings, uno dei marchi più belli del mondo, di cambiare la formula a uno dei suoi tè. E fin qui va bene: possono farlo. Ma se decidono di farlo al principe dei tè, e cioè all’EARL GREY, l’unico tè che ti fa sentire ricco anche senza una lira, come se avessi a casa Anthony Hopkins come maggiordomo anche se non hai i soldi per cambiare la candela al motorino, allora capisci che a Londra davvero non hanno niente di meglio da fare. Ma insomma! L’Earl Grey NON si tocca, perché è un’icona e basta, troppi ricordi ancora evoca quella scatola in metallo vicino al malto Knapp nella cucina in casa dei nostri genitori. Ma non è certo una novità il tentativo industriale di provare a farci cambiare le abitudini, o meglio i “gusti” delle nostre abitudini (se solo pensate a cosa non succede ogni volta che le nuove mogliettine provano a cucinare un piatto qualunque ma sacro alla suocera). Vi ricorderete senz’altro quello che successe alla Coca Cola, (tutto sommato l’equivalente bevanda nazionale in America), quando qualche pazzo decise la stessa cosa. Volevano farla più dolce in Europa come già lo era da loro, ma tutti urlarono, e poco dopo rispuntò sugli scaffali con il sottotitolo “classic”. A Londra, pochi lo sanno, qualche anno fa successe un altro scandalo del genere ma che non ha avuto la stessa risonanza. La Dunhill, la prestigiosa marca di pipe e affini, negli anni aveva prodotto anche un profumo, un’eau de toilette, nemmeno facile a trovarsi. Eppure dopo un certo numero di anni, hanno pensato anche questi di cambiare fragranza e nome eliminando l’altra cui si erano abituati tutti, compreso il mio amico Piero Corsini che, usandola per motivi di autoplagio (Londra, Dunhill, Savile Row, l’agente segreto 007, Sean Connery, insomma l’impero Britannico in bianco e nero), scrisse una lettera infuocata al responsabile della linea profumi che si scusò promettendo di ripristinare la produzione e, garantendo una personale fornitura di quell’eau de toilette, gli spedì in regalo un paio di bocce formato famiglia. Allora? Come mai avvengono questi tentativi di cambiare gusti, fragranze e aromi cui siamo abituati? In realtà, alla Twinings sanno benissimo che le abitudini non si cambiano, sono loro i primi che non sostituiranno mai l’Earl Grey con il NEW Earl Grey nel segreto delle loro casette calde e confortevoli. Ma il marketing gli suggerisce di fare un po’ di carnival nella speranza che qualche nuovo palato ci caschi e magari diventi un affezionato nuovo cultore di un tè vecchio di pochi giorni. Sanno che noi continueremo a pretendere il nostro vecchio tè, e sanno anche che siccome tutti ne parleranno (come noi qui per esempio) confidano che qualcuno incuriosito li compri addirittura tutti e due per sentire qual è la differenza. Morale? Ne venderanno più di prima di questo sciagurato annuncio. Soprattutto in questi giorni, quando tutti noi impauriti stiamo facendo la scorta al supermercato con la scatola da 50 bustine!
Per me comunque “Just a cloud, please!”.
lunedì 29 agosto 2011
Un libro in vacanza
È stato in vari posti quest’estate, ha viaggiato per alberghi, camping, pensioni, appartamenti, residence, ospite da amici, eppure è stato sempre fermo. E quante ne ha viste lui nessuno, gli è passato sopra di tutto e lui niente, immobile come una Sfinge ha assistito al suo personale scempio con una flemma alla David Niven pronto ad essere utilizzato solamente come un’ultima spiaggia. Sto parlando del libro che avremmo scelto da leggere (ah ah) quest’estate. Niente. Intonso. Anzi, un po’ sciupato da tutti i viaggi andata e ritorno dal comodino alla valigia, dal tavolino allo zaino, sulla copertina macchie di caffè da lui coraggiosamente sopportate, con granelli di sabbia nelle pieghe delle pagine che in realtà avrebbero dovuto raccogliere le nostre riflessioni da custodire gelosamente, senza dimenticare non certo lacrime sui fogli, ma più spruzzi di acqua salata dalla coda di cavallo della signora che “pensava” di leggerlo in spiaggia, e che invece si è consumata nell’amministrazione di sms entranti e uscenti dal suo cellulare. Ha resistito a qualsiasi affronto psicologico, perché gli abbiamo preferito in tante occasioni La Settimana Enigmistica, scegliendo di rimanere intrappolati nel 31 orizzontale del Bartezzaghi “la mancanza dello sviluppo in un’economia statica” (cioè “crescitazero” tutto attaccato) piuttosto che nelle trame escogitate dal suo autore. Ma è questa la forza di un libro, quella di rimanere indefesso di fronte a tutto, soprattutto alla nostra ignoranza e alla nostra pigrizia, per poi diventare il nostro migliore amico appena dopo le prime pagine, cui legarsi a catena, sperando che non finisca mai più. A dirla tutta, il limite di un libro è proprio quello che purtroppo prima o poi finisce. Se ci è piaciuto molto cominciarne un altro è uno sforzo titanico, uno scoglio tale che in confronto Dover sembra una duna di Sabaudia. Ma siccome siamo imperfetti, ci affezioniamo e una volta finito poi ci sembra di tradirlo se ne cominciamo un altro: ecco perché chi li presta è un poveraccio, e chi li chiede in prestito è un delinquente perché commette il reato di appropriazione indebita non restituendoli mai. E visto che come sempre abbiamo scelto il libro da leggere durante le vacanze proprio come un vestito da mettere in valigia, la scelta è caduta su un Adelphi, con quella carta pazzesca, qualsiasi colore sembra un arredo, voglio farmi tutta casa così, si può fare la prova degli accostamenti come con un RAL delle tinte per i muri. Talmente chic che quando hai un libro Adelphi tra le mani ti senti più elegante, non c’è niente da fare, se te lo porti in aereo puoi anche simulare di non aver paura, le hostess ti guarderanno con rispetto e staranno molto più attente nel versarti il caffè americano da quelle brocche Alessi dalle quali sbava sempre.
Morite dalla voglia di sapere qual era il titolo del mio? Era “L’assassino” di Simenon. Ma domani lo comincio, lo giuro!
lunedì 22 agosto 2011
Una vacanza lunga 40 anni
Se fate le vacanze da 40 anni nello stesso posto vi accorgerete del tempo che passa dallo sguardo degli altri villeggianti che invecchiano ma che vi lanciano la stessa occhiata come se aveste entrambi sempre 15 anni. Se fate le vacanze da 40 anni nello stesso posto vi accorgerete che avevano ragione quei vecchi che vi davano certi consigli: improvvisamente non li troverete così banali come allora e anzi, mettendoli in pratica vi sentirete meglio, e proverete il desiderio di chiamarli per dirglielo ma vi accorgerete che nel frattempo sono morti. Non vi rimarrà altro che cominciarli a dare voi ad altri ragazzi che vi guarderanno nella stessa maniera e allora gli lancerete l’ anatema “ve ne accorgerete...”, proprio come avevano fatto 40 anni prima con voi. Se fate le vacanze da 40 anni nello stesso posto, tornando a casa, i problemi saranno sempre gli stessi: “come l’ho fatta la lavatrice l’anno scorso?”. Certo, la muta e il pantalone tecnico sono sempre quelli ma siccome li lavate solo una volta all’anno non vi ricorderete quale lavaggio avevate messo in pratica. E quando poi tutto sarà pulito lo metterete via proprio come si fa con l’albero di Natale, sparandoli sopra il palchettone dicendo “arrivederci all’anno prossimo”, che arriverà molto prima di quanto non immaginate. Tornando a casa, scoprirete che esiste ancora qualcuno che dice sul serio “bentornato” e se una volta vi faceva raccapriccio, oggi vi sorprenderete a rispondergli con un sorriso sincero “bentrovato!”. Le vacanze negli stessi posti hanno la caratteristica di far diventare tutto un copione con gli stessi personaggi ma con intonazioni diverse. E quando tornerete a casa vostra, proprio nella vostra via, noterete che i semafori vi sembreranno alti uguali e non meno giganti come quando tornavate cresciuti da quelle prime vacanze.
Questi sono i pensieri che arrivano quando si comincia a intravvedere il rientro a casa, già una settimana prima, cioè quando arriva il giorno dopo l’esatta metà vacanza, è quello che s’intravede in cima, quando si lancia lo sguardo a valle, quando la fine è nota, “Tocca rientrare”.
E ci ricorda che l’inizio d’anno (sappiamo bene che è questo quello vero, non quello stupido spazio tra la mezzanotte del 31 dicembre e il primo minuto del 1° gennaio) ha il vantaggio e lo svantaggio di essere come l’alba dopo la notte. Può cancellare i pensieri che ci hanno consunto fino a un giorno prima della partenza, esattamente come una bella dormita, oppure, se la preoccupazione resiste, può trasformarsi, come il risveglio di Don Abbondio, in una recidiva dei più tetri pensieri che si ritroveranno esattamente lì dove li avevamo lasciati, nello stesso posto. Ed è per questo che alla fine si dice sempre “Come sono belle le vacanze!” soprattutto se sono 40 anni che fate sempre le stesse.
E comunque stiamo calmi, stiamo ancora ad Agosto: rinfresca il bosco!
lunedì 15 agosto 2011
Abbey Road 2011
Tra tutte le “mosse” nelle vacanze che si possono fare, comprese quelle “intelligenti”, c’è n’è una che potrebbe addirittura divertire i vostri figli dimostrandogli che ci sono vari modi di stare al mondo senza per forza tenere il broncio se non gli comprate l’ultima maglietta di Abercrombie & Fitch. Prendete una città in Europa, tipo Londra (ci si arriva anche con il treno), parlate con la signora sovrappeso della portineria dell’albergo e chiedetele se per caso esiste una fermata dell’Underground più facilmente comprensibile del mondo, cioè quella di Londra, per arrivare vicino ad “Èbbiròdd”. Lei farà finta di non capire “What please?”, voi le intimerete di guardare su Google e solo allora lei ridendo capirà “Ah, Abbey Road!” (pronunciandolo “...‘bRoùdt”). A quel punto è fatta. Certo: perché vedere un genitore trasformarsi in qualche cosa di più implume di loro, e che oltretutto si diverte, è un affronto imperdonabile e quindi devono fare qualsiasi cosa per pareggiare i conti, finanche smetterla col muso. Nel tragitto in metropolitana, sull’iPhone gli farete vedere una delle copertine più famose del mondo, scattata più di 40 anni fa, in quella strada all’uscita degli studi della EMI, con quei 4 ragazzi che vestiti ormai da sé, attraversavano proprio quelle strisce pedonali dove tra poco voi (per ora solo voi), vi volete scattare una foto come loro. “Papà, sei proprio pazzo! Ah ah ah!” (stanno già rosicando). Ma non appena arriverete sulla location si accorgeranno che non siete l’unico pazzo in mezzo a svariate coppie, con lui che urla di tutto a lei, un paio di madri stravolte che sbagliano inquadrature maledicendo il giorno in cui hanno fatto conoscere i Beatles ai loro figli, uno spagnolo senza le scarpe come McCartney, e un indiano con un completo bianco come Lennon, oltre a un gruppo di cinesi che non poteva mancare: “Ah sì? E tutti questi chi sono?”. È una follia collettiva che si ripropone quasi tutti i giorni ma soprattutto la domenica mattina alle 8, cioè adesso, quando speravate di essere gli unici ad aver riflettuto che almeno la domenica mattina ci sarebbero state meno macchine a rompere le scatole, e invece no, ci sono pure gli autobus “ma questi non dormono?”. Un inferno: vedere gli abitanti della zona, guidare le loro macchine della domenica mattina, comprese Maserati, tirate fuori per l’occasione da soggetti che ci vanno solo a comprare il giornale e a bere un “frappuccino” da Starbucks, con l’intenzione di sfrecciare su Abbey Road e invece costrette a rallentare e inchiodare consumando pasticche e freni a disco, perche voi siete COMUNQUE sulle strisce, anche se non per attraversare, è un’esperienza meravigliosa. Ma quando tutti si rivolgeranno a voi, in quanto l’unico ad avere le idee chiare sulla mossa delle gambe “vanno aperte a compasso!”, sulla direzione “da sinistra a destra”, sullo sguardo “davanti a voi”, incurante delle macchine che sfrecciano a sinistra e a destra, sentirete una vocina sommessa che timidamente chiede: “Papà, me ne scatti una anche a me?”. È in quel momento che vi sentirete un eroe. A Londra, ad Abbey Road, come se foste su una copertina di un disco.
lunedì 25 luglio 2011
Goodbye Shuttle
Leggere che lo Shuttle va in pensione dopo 30 anni, è una di quelle cose, che ti fa pensare che il tempo passa non solo per te ma anche per la Nasa. Se all’epoca avevo 18 anni e guardavo a quella specie di Jumbo che poteva atterrare dallo spazio proprio come un Fiumicino-Linate, come al futuro della mia vita (“un giorno ci andrò a farmi un giro, magari tra trent’anni!”) non oso pensare a quello che è passato in questi giorni nelle teste dei giovani ingegneri Nasa dell’epoca mentre, ormai adulti, hanno assistito dagli enormi monitor all’ultimo atterraggio dei loro sogni in attesa di essere ricevuti un giorno chissà dal Presidente degli Stati Uniti per sentire la sua voce profonda emettere il sigillo tombale: “good job!”. Pensateci: entrati giovani e scattanti come leopardi in quella sala controllo che ha fatto il giro del mondo in televisione, con sogni, speranze e illusioni, ne escono trent’anni dopo con la busta della liquidazione in mano e una pacca sulla spalla. Anche perché sanno che oggi lo spazio costa troppo, e l’unica cosa che alla Nasa possono ancora permettersi non sono più i loro sogni, ma quelli di qualcun altro, presentati su un iPad. Agli odierni pensionandi non rimane altro che fare la guida esperta per accompagnare i turisti in quello che fino a ieri era ancora il loro regno: la sala controllo di Houston. E allora? Oggi, mi piacerebbe sentirli parlare, come in un film americano, davanti a una birra del pub lì fuori, con i gomiti appoggiati al bancone, di tutti i successi e di tutti i problemi che avranno avuto in questi trent’anni: le risate generose e le strette di mano forti e calde, che si saranno scambiati insieme agli abbracci pieni di dolore quando gli equipaggi non tornavano più per colpa di una maiolica che si era staccata al ritorno nell’impatto bruciante con l’atmosfera. Mi piacerebbe sentirli riflettere sul senso della vita che posseggono ora, dopo le mille serate passate ad ascoltare gli astronauti raccontare la cosa più eclatante che sia dato oggi di compiere a un uomo: guardare il nostro pianeta da lontano e fargli una foto con una macchinetta qualsiasi. Mi piacerebbe sentire i racconti di questi ragazzi cresciuti che a loro volta ascoltavano le avventure degli uomini delle missioni Apollo, quando sulla luna si andava con un computer che aveva 32 K di memoria, l’equivalente oggi di 4 fogli di Word vuoti! Mi piacerebbe vedere sui loro occhi i trent’anni che hanno passato tra le stelle per scendere finalmente sulla terra, sapendo che andare su Marte in realtà non frega niente a nessuno, e che sulla luna, non fosse stato per Kennedy e le sue promesse a Marilyn dopo una notte d’amore (“Puoi chiedermi quello che vuoi, anche la luna!”), l’uomo non ci sarebbe mai andato. A questi uomini che stasera torneranno per sempre dai loro figli, ormai uomini anche loro, che in classe potevano dire “mio papà lavora alla Nasa!”, mi piacerebbe offrire questa birra al pub, per trattenermi alla cassa e non vederli all’uscita del bar guardare in alto nel cielo, piangendo.
lunedì 18 luglio 2011
La preparazione delle valigie
Non ci sarà certo tempo utile per rivedersi “Tra le nuvole” con George Clooney e la stupenda Vera Farmiga, viaggiatori del mondo per lavoro, come stanno a proprio agio loro in un aeroporto nemmeno un’hostess, per imparare il metodo di riempimento della valigia per le vacanze. È già troppo tardi e l’incubo della valigia che non si chiude è un generatore d’ansia di prima categoria. Se si è in famiglia è più facile: la moglie pensa a tutto lei sia per i bambini (compresi maschera, boccaglio, pinne, braccioli, scarponi, piccozze, caschi, senza dimenticare la Fargan) che per il marito che non deve fare altro che sistemare, come sempre, le cose “legali”: i biglietti, i passaporti, i soldi, le chiavi della macchina, della casa, della cantina, le carte di credito, i traveller’s cheque (scherzo, ve li ricordate? Facevano venire la paura di essere ricchi), le cartine autostradali se è ansioso, e il navigatore se è un pigro, che ci vuole? Niente, e infatti ci pensa lui. Ma vorrei proprio vederlo a ruoli invertiti: una frana, con mille domande a tutti i membri della famigliola? “Tesoro che ti serve? Il triciclo? E tu piccola vuoi tutto il set dei peluche dietro altrimenti non dormi, vero?”. Davanti una valigia vuota l’essere umano dà il peggio di sé, e si ritrova in balia dei soliti archetipi: un uomo si sentirà sempre un esploratore e pensa al peggio che può capitare per far vedere a Madre Natura che lui può affrontare un tornado esattamente come una partita a briscola. La donna è più fortunata: con un beauty-case ha risolto tutto, il resto si compra! Sembra un test psicologico: dimmi come fai la valigia e ti dirò chi sei: troppa roba? Sei un ansioso: pensi che anche a Follonica possa servirti il permanganato di sodio per dare una sciacquatina all’insalata dei bambini. Poca roba? Ti svenerai con i conti del laundry dell’albergo. Invece questa sarebbe la circostanza adatta per dimostrare a se stessi il proprio grado di saper vivere: poco, di gusto e soprattutto velocemente devono essere le caratteristiche della valigia perfetta. Un metodo per riuscirci potrebbe essere quello di scriversi una lista, con l’accortezza di fare, una volta rientrati, il diario delle effettive esigenze vissute: troppi pullover, troppi costumi, e invece serviva un ombrello e una camicia in più. Ma chi ci pensa, se poi, non appena si torna, l’unica preoccupazione è quella di buttare tutto in lavatrice per dimenticare completamente le vacanze, che alla fine stufano pure quelle? La verità è che i tempi dell’Orient Express sono finiti da un pezzo, i bauli di Vuitton che venivano spediti un mese prima sono diventati un coffee-table da salotto. Le vacanze si chiamano ferie e sono un incastro nel calendario dove il divertimento o meglio la “svaccanza”, come la chiama giustamente Dago, sono un obbligo peggio del Capodanno. Alla fine il problema rimane sempre quello: la valigia non si chiude e non si chiuderà mai! Una cosa però, datemi retta, portatela sempre: una bustina di Bentelan. Non si sa mai...
venerdì 15 luglio 2011
lunedì 11 luglio 2011
Un matrimonio sbagliato
Ma siamo impazziti? Ma le regole dell’alta società dove sono finite? O meglio “quando” sono finite? Pochi giorni fa, o forse il 19 aprile 1956, quando la donna più bella del mondo sposò uno degli uomini più brutti, che poi, vedi alle volte, diventò bellissimo da vecchio? Forse quel giorno Grace Kelly, una donna che le aveva tutte eccetto un titolo, e per la quale Alfred Hitchcock, coniò, amando non riamato, l’ossimoro “ghiaccio bollente”, insomma la principessa di Hollywood più che di uno staterello iva esclusa, non poteva sapere che sposando uno che con lei non c’entrava niente avrebbe poi inconsapevolmente generato con quel matrimonio in bianco e nero tutto il macello di questi giorni, oltre ai tre fiorellini che conosciamo. Ho davanti gli occhi una cartolina comprata proprio a Monaco: in un giardino seduti ci sono Ranieri e Grace, alle loro spalle in piedi i tre ragazzi, Stefania già col broncio, Carolina bella come oggi con al fianco Philippe Junot (ve lo ricordate?), e Alberto ancora sgonfio e con i capelli. Mi sembra tutto regolare, no? Dissolvenza ai giorni nostri: Grace perita in un incidente assurdo, Ranieri morto di dolore, Carolina vedova e sposa erroneamente, Stefania lasciamo perdere, e Alberto, il nuovo re che oggi assiste al suo matrimonio con una bellissima Charlene Wittstock come fosse quello di un altro, distratto, pensando al buffet. Ma stiamo scherzando? Ma come, sua madre, nel suo ultimo film “Alta Società” mi ha fatto capire tutto e lui non hai ancora capito niente? È quindi un re quello che lascia piangere una ragazza tra i singhiozzi, senza una carezza, senza un gesto di conforto ma al contrario solamente con smorfie stizzite? No! L’unica acqua che avrebbe dovuto bagnare quelle gote poteva essere pioggia o l’acqua delle piscine di tutto il mondo, che fino allora avevano scolpito quel corpo atletico così inquietantemente WASP (White AngloSaxon Protestant), così simile a quegli stessi colori di Grace da Philaelphia, che 55 anni fa sedussero Ranieri. Sull’altare abbiamo quindi assistito a una lezione di mal ton del 2000 impartito da un re in persona. Per fortuna lei, in questo trambusto emozionale, dove i secondi durano secoli, è anche riuscita a regalare un sorriso straziante: un misto tra un “adesso mi passa” e un “ tesoro vedrai, andrà tutto bene”. Che grandiosità d’animo hanno le donne, quanto devono insegnarci ancora: la lezione l’ha data lei, a tutto il mondo, e l’uomo non ha fatto nient’altro che l’ennesima figuraccia. Anche Grace poco prima del matrimonio era impaurita e spaventata “sarà il caso?” confidava alle sue più care amiche, ma il fascino della favola all’epoca ebbe la meglio. Oggi che le favole non esistono più e con 100 euro da Gap ti rifai il guardaroba non mi sembra il caso di ipotecare la propria giovinezza sull’altare di un cartone animato. Scappa, Charlene, scappa, finché sei in tempo: un bis non lo vuole nessuno.
lunedì 4 luglio 2011
Quando arriva una multa
Quando arriva una multa, è una tragedia, non esiste niente, se non un telegramma foriero di notiziacce da sempre, che possa spaventare di più (che poi io lo so perché fa paura: è la parola GRAMMA, quella R e la doppia M sembrano un ringhio feroce: il solito problema onomatopeico). Nel tragitto che dalla portineria porta all’ascensore, dove ti viene consegnata insieme a uno sguardo sconsolato cui segue il nostro di rimprovero “non la poteva rifiutare?”, mille pensieri di vendetta e di rivalsa su tutto il corpo dei Vigili Urbani di tutto il mondo affollano il nostro cervello alla ricerca di mille modi per eludere la sanzione, partendo dal teorema “io non la pago”, perché qualsiasi cosa abbiamo fatto comunque non l’abbiamo fatto apposta. Primo step, vado dal vigile “amico mio”. Non esistono veri amici che siano vigili, tutte le altre armi sì, i pompieri, i poliziotti, i carabinieri, i sommozzatori, chiunque, ma di un vigile non ce la fai e la cosa bella è che non è colpa loro, è solo nostra: è più forte di noi, non siamo in grado di reggere lo sguardo di uno che ci rimprovera come una madre con il pargolo: “mi scusi, non l’ho fatto apposta” - “Ah, non ha visto che era direzione vietata? Che c’era il varco, che è corsia preferenziale, che è divieto di sosta, che è zona pedonale, che è vietato tutto? Non l’ha visto?”. Come fai a essergli amico, devi riconoscere che ha ragione lui e provi a dirglielo: “Mi scusi, mi ero distratto!” - “E allora, io posso farci niente, ormai hanno fatto il verbale, arrivederci, circolare!”. Quindi “amicizia” strada impossibile da praticare! E allora vado dall’avvocato, che ci parla lui al giudice di pace, glielo dice lui che a me una telecamera non può farmi la multa perché non ero io, non guidavo io, non era mio il motorino, c’è la privacy, non ero in città, insomma, no, non pago, non voglio pagare! E l’avvocato che ti dice? “Ma che c’è scritto sul verbale? Ché l’ha fatta la Sirio?” (che poi sarebbe il nome della telecamera, dal nome della stella luminosissima: vede TUTTO). Tu glielo leggi al telefono, sembra un’epigrafe: “impossibilità di fermare il veicolo in condizioni di sicurezza e nei modi regolamentari perché già distante dal posto di accertamento in servizio appiedato”. Ma che vuol dire? “Che stavano a piedi, erano vigili, t’hanno visto, non c’è niente da fare, stai più attento la prossima volta, ciao”. Quindi non rimane che la telecamera, Sirio o Panasonic che sia, potrà toppare una volta, una che è una? Vado dall’avvocato: “se c’è scritto Sirio ves, possiamo fare ricorso, però solo se siamo fortunati, se c’è gente al tribunale, se passa il tempo, se la perdono o si dimenticano, forse ce la facciamo, proviamo, dài, lasciami ‘sta multa, ci penso io!”. Oh, finalmente, lo sapevo io che c’era un metodo, il portiere può anche smetterla di accettare le multe tanto io non le pago, non sono mie! Dissolvenza, cinque anni dopo, il portiere sorride, è nato un bambino nel palazzo? Hanno consegnato una cassetta di champagne? “No! È arrivata la cartella esattoriale, mi sa che sono tasse...”. La apri: ed è di nuovo quella multa che si è decuplicata come i pani e i pesci. Sirio vince 2 a 0 contro la tua vita e suggerisce un altro metodo diverso da tutti gli altri messi in pratica fino adesso: pagare.
lunedì 27 giugno 2011
Tema di maturità oggi
TEMA D'ATTUALITÀ: Analisi del valore assegnato alla fama effimera nella società odierna a partire dalla famosa frase di Andy Warhol "Nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti". Lo faccio io adesso facendo finta di avere 18 anni e di trovarmi sul banco di un corridoio della mia scuola a scrivere il tema d’Italiano per l’esame di Maturità. Pronti? Via!
Quando Andy Warhol, pace all’anima sua, disse questa frase i miei genitori non si conoscevano nemmeno. Piuttosto nacquero. Era il 1968, e i loro genitori, cioè i miei nonni, avevano 30 anni circa, avevano vissuto la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) di striscio e negli anni successivi si erano divertiti senza saperlo, o forse un po’ sì. Nessuno allora poteva immaginare di rimpiangere gli anni 60 fino a oggi compreso (questo tema ne è la prova) come anni irripetibili, indimenticabili, inarrivabili per gioie, speranze e aspettative, in una parola “unici”. Probabilmente all’epoca non potevano sapere che in quei giorni un eccentrico artista americano di nome Andy Warhol aveva pronunciato questa frase e molto più probabilmente non ne avrebbero capito il significato: “famoso? E per cosa?”. Mi pare di sentirli, a loro bastava farsi una corsa al mare per essere felici e il loro lavoro per stare tranquilli ad ammirare l’orizzonte della loro vecchiaia. Non cercavano certo tutto quello che oggi i media promettono a me e ai miei coetanei. Non lo cercavano anche perché non gli era offerta quest’opportunità. Essere famosi era una caratteristica non di chi si metteva in mostra e basta, ma di chi, per meriti stratosferici, lo era diventato in conseguenza della sua professione esercitata a livelli altissimi. Tanto per fare un esempio i Beatles che, piaccia o no, a 28 anni avevano riscritto la storia della canzone mondiale! Certo, Warhol non poteva immaginare, che un libro scritto nel 1948 sarebbe diventato nel 2000 un programma tv che, quello sì, avrebbe regalato un quarto d’ora di celebrità ai suoi partecipanti. “Il Grande Fratello” infatti, oggi è il vero mostro d’illusione di tempi felici che durano in realtà un anno appena da spremere come un limone in serate in discoteca per cercare di metter su i soldi necessari a comprarsi magari una casa. Ma di certo non fornisce le armi necessarie a sopravvivere a quel famoso “quarto d’ora”. Resistere a queste seduzioni, a queste promesse, a queste illusioni mi sembra il vero esercizio da praticare una volta usciti da questa scuola. Prepararsi a quello che ci aspetta in questo paese mi sembra una sfida superiore, più difficile e forse più romantica. Oggi mi chiedo se valga veramente la pena avere un quarto d’ora di celebrità in tutta la propria vita visto che di Andy Warhol, un uomo morto a 58 anni e che famoso lo è stato per molto più di un quarto d’ora, oggi rimangono una zuppa Campbell, un ritratto di Marylin Monroe, poi diventato uno style, e questa frase: stupida e bella come tutte le intuizioni dette in largo anticipo.
PS: “Se non mi promuovono con questo tema domani vado ai provini di Grande Fratello, così almeno conosco la Marcuzzi!”
lunedì 20 giugno 2011
Tutti al mare!
In Italia, tutto sommato, andare al mare, sembra sempre un’avventura degna di “Una domenica d’agosto” un film del 1950 di Luciano Emmer: ancora oggi chissà perché, ma vediamo in dettaglio. Partenza: di mattina presto un padre di famiglia stremato da una settimana lavorativa con il capoufficio che non gli riconosce mai abbastanza i suoi meriti, mantiene la promessa fatta pochi giorni fa ai figlioli sul divano mentre già dormiva e svegliandoli urla con malcelato sarcasmo in terza persona: “Papà vi aveva promesso che andavamo al mare? E quindi, via, tutti al mare!” - “Sìì” urlano felici i bambini svegliandosi come molle di titanio degli ammortizzatori di un suv. La casa senza condizionatore trema mentre un carosello prende forma tra borsa frigo da preparare con panini con la frittata, merendine, succhi di frutta, thermos di vino bianco e polpa di ghiaccio e thermos di caffè caldo, insomma tutto quello che serve in caso di attacco nucleare, e borsa mare con creme di tutti i livelli di protezione, asciugamani, parei, e tutto l’armamentario nautico per il bagno dei bambini, la ciambella, i braccioli, la maschera, gli occhialini, e addirittura le pinne! Tutto ovviamente preparato dalla mammina che veramente se ne andrebbe al mare sì, ma da sola! Finalmente si parte, dài che ci vuole? Carichiamo e via! Due parole dette cosi, senza pensarci: “carichiamo”. Ti serve un fiorino per metterci tutto, perché ovviamente parliamo di spiaggia libera e quindi non bisogna dimenticarsi delle sdraio, dell’ombrelloncino (l’ombrellone vero e proprio si trova solo negli stabilimenti), della sedia per la suocera e del tavolino per l’ora più bella, il pranzo. Tutto regolarmente acquistato in un impeto di buon umore all’Ikea a marzo, quando pioveva e ora tocca usarla tutta questa roba. Seconda parola: “via”. Via? Dove? Sulla strada? I casi sono due: o tutti hanno ascoltato quello che il padre aveva promesso e quindi per tigna si fanno trovare sulla strada per il mare, oppure tutti hanno avuto la stessa terribile idea, perché non ci si muove di un millimetro e quando si arriva i parcheggi sono intasati di fiorini e ducati con migliaia di parenti che sbarcano ai lidi (fate caso che al mare ci vanno solo quelli che sono tutti parenti tra di loro, l’altra categoria, quella degli amici, non va al mare, ma solo in barca, come mai? Eh, vabbè ci siamo capiti...). Una volta conquistato il quadrato di sabbia a duri colpi di sguardi assassini, e sistemato tutto l’armamentario, non rimane altro che leggere il giornale con il vento che te lo sbatte in faccia, minacciare i figli contando fino a tre per farli uscire dall’acqua, zittire la suocera che vorrebbe parlare dei suoi tempi, mangiare con la sabbia che s’infila nel panino e nel bicchiere di carta che vola via, scacciare i venditori ambulanti che disturbano il sonno mentre la moglie volentieri ci parlerebbe di qualsiasi cosa. E alla fine della giornata, quando finalmente si torna a casa, sembriamo sempre quelli del quadro di Norman Rockwell “The Outing” e sapete perché? Perché di andare al mare in verità non gli va a nessuno. Ma allora restatevene a casa, no? E andate a votare! Ah, no... già fatto!
lunedì 13 giugno 2011
Avete coraggio?
Ci sono ancora 4 weekend disponibili per fare una follia che vi lascerà qualcosa dentro per sempre: una macchina del tempo gratuita e sensazionale. Ma partiamo dalla considerazione che dal 21 giugno comincia l’autunno. Certo, mica l’estate, se comincia è già finita, no? Invece l’autunno è già lì che scalpita con le sue foglie gialle pronte a farci innamorare di nuovo dell’ennesima donna sbagliata e quindi, di fatto, comincia a farsi sentire. Per esempio con le giornate che dal 21 giugno cominciano ad accorciarsi e le conseguenti albe cominciano più tardi. Per la follia che sto proponendo servono albe vere, quelle delle 5 e mezzo del mattino (un mesetto ancora e addio!). Serve un sabato, o meglio una domenica, serve una città come Roma, serve un motorino, o uno scooter comunque con sella comoda per due (vedremo dopo per chi). Itinerario? Per esempio quello di Ottorino Respighi e le sue “Fontane di Roma”, seguendo ovviamente lo stesso percorso. Primo, appena alzati, freschi di spazzolino e dentifricio con l’adrenalina a mille (“tutti dormono e io già in giro!”), e via verso “La Fontana di Valle Giulia all’alba” che si trova all’angolo di Via Flaminia, spesso ci si ferma per bere un sorso d’acqua gelida dal getto ideale. Secondo, la fontana del Bernini a Piazza Barberini col suo Tritone che usa la conchiglia come un megafono o come una borraccia (non era chiaro nemmeno ad Argan!). Via di corsa al terzo step: la Fontana di Trevi dove, in una piazza da sempre odiata dai romani per via dell’affollamento causato da venditori ambulanti e turisti scemi che buttano pezzi di euro, finalmente libera da questo ciarpame, potremo ricordare lo scherzo dell’asso di coppe ai danni del barbiere impiccione e commentatore inopportuno dei lavori in corso all’epoca da parte del Salvi. E poi un salto alla quarta fontana, sarebbe quella all’interno di Villa Medici, però per vederla devi scassinare il cancello o il portone della Villa medesima: meglio evitare per non finire in galera all’alba come Cavaradossi. Meglio passarci fuori al volo e dirigersi verso Canova a Piazza del Popolo per fare colazione con un cappuccino freddo scuro, e riflettere su questa gita fuori dal tempo. Eh sì, perché avrete capito che nell’assenza del traffico nato con il motore a scoppio, come per magia riemergono i suoni di DUE SECOLI FA: le fontane producono un suono altrimenti inascoltabile già dopo un paio d’ore: quello dell’acqua che scroscia! E poi, miracolo, quando meno ve lo aspettate, un rumore che viene direttamente dall’800: zoccoli di cavallo, quelli delle botticelle, che una volta erano taxi a buon mercato per tornare da una festa a casa, (e durante la guerra addirittura l’unico mezzo con il coprifuoco visto che non avevano fanali avvistabili al buio!). E tutto questo nella piena luce di un’alba di giugno. Avete questo coraggio? Di alzarvi una mattina solo per fare questa follia, magari con una ragazza da tirare giù dal letto? Trovatelo! Altrimenti a che serve?
lunedì 6 giugno 2011
L'imprinting del 2 giugno
Voi mi dovete spiegare perché qualsiasi pensiero abbia in mente, ovunque mi trovi, nel momento in cui passa una qualsiasi banda che intona l’inno nazionale mi viene un groppo in gola che nemmeno un film della Disney riesce a scatenare. Succede in questa sequenza: da lontano senti dei suoni che non ascoltavi da tempo, un misto fritto, anche un po’ sgangherato di trombe, tamburi e piatti, ti giri, cerchi con lo sguardo e poi riconosci quattro note che si aprono un varco dentro di te come la separazione dei flutti. Non riesci a pensare “uh, la banda” che già piangi cantandoci sopra urlando, con le vene del collo gonfie pensando: SONO ITALIANO! La parata del 2 giugno nel 150° anniversario dell’unità d’Italia, l’ho voluta seguire TUTTA sin dall’inizio annunciato dal rombo delle Frecce Tricolori che, ascoltato dal vivo, è pelle d’oca pura. E mentre quelle Frecce volavano via io mi sono ritrovato dritto al primo giorno d’asilo nella scuola Guido Alessi di Via Flaminia in Roma. A 5 anni faccio finalmente la mia prima cosa “da solo”: una porta si apre in un corridoio di quella scuola ed entro in una classe senza banchi ma con un pianoforte verticale scalcagnato suonato con veemenza da una ancora più scalcagnata signora che intimava ad altri miei futuri colleghi di classe d’intonare insieme a lei una canzone. Il titolo era “Fratelli d’Italia”. Questa marcia, facilissima da cantare, si è quindi fatta strada in quel cervello cinquenne con una facilità estrema. La signora urlava, noi dietro a lei, in una parola era fatta! E quando te lo dimentichi l’inno nazionale una volta che lo impari così? Mai! Insomma un imprinting in piena regola. Ecco perché la festa del 2 giugno è un appuntamento fisso della nostra memoria. Di tutti. Tanto che solo pochi anni fa, nella notte del primo giugno, il mio amico Paolo Infascelli mi fece scoprire dove si trovavano TUTTI i mezzi che avrebbero sfilato la mattina successiva: tutti parcheggiati lungo la Cristoforo Colombo per chilometri e chilometri. Di notte, carrarmati e aeroplani, ambulanze, mezzi tecnici, insomma l’ESERCITO, sta lì pronto che riposa: pazzesco! E anche un po’ pauroso, devo dire: un dietro le quinte di un grande show che si appresta ad andare in scena la mattina dopo, quando, tra tutti quei battaglioni cercheremo con lo sguardo la mascotte, quel cagnolino che, secondo me, fa la vita più bella del mondo. E ditemi se per una sola volta nella vita non abbiamo mai pensato di essere noi accomodati su quella splendida Flaminia 335 dalla quale il Presidente Napolitano ha salutato tutti. Insomma il cerimoniale ha quel non so che di teatrale che mi è sempre piaciuto e che tutto sommato una funzione in questi tempi troppo informali ce l’ha ancora: quella di farci credere in un paio di valori da coltivare senza avere niente in cambio. Un bambino all’asilo non si fa tante domande ma quarant’anni dopo ancora si commuove al passaggio di una banda e se poi quando arrivano i Bersaglieri gli si gonfia il petto dall’emozione che vi devo dire? W l’Italia!
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