Il 26 dicembre è il giorno più immobile dell’anno, è come una pasquetta, ma il freddo di dicembre non è il massimo per fare una gita. Che si fa il 26 dicembre? Niente, al massimo si legge il giornale del 24 dicembre, si risponde agli sms di auguri ai quali si teneva di meno, e già che ci siamo si manda un augurio ai nostri Stefano in rubrica, visto che oggi è il loro onomastico, si mette da parte la carta rovinata dei pacchi per la raccolta riciclata e si riflette sui due giorni passati con chi si voleva condividere la cena della viglia e il pranzo del 25, notando che a un certo punto, da sotto la tovaglia o seduti sul divano un po’ inebetiti dai brindisi dell’Asti Gancia (che ci piaceva tanto da piccoli, “Oh Happy Day” e oggi invece c’intristisce), spuntava un cellulare cui si mandavano auguri in diretta durante il pasto. Con chi stavano questi? Con noi o con quelli sul cellulare? E quelli sul cellulare non ce l’avevano una famiglia, un amico LIVE davanti a loro? Ma che ci frega, come diceva Riccardo Garrone nel primo Vacanze di Natale: “anche questo Natale ce lo siamo tolto dalle palle!”
E poi, a dieta. Da oggi. Tanto, ci risfondiamo il 31.
PS: anzi, facciamo una cosa: andiamo al cinema!
mercoledì 26 dicembre 2012
venerdì 21 dicembre 2012
Mappe pazze
Sono di parte: si sa. Allora, due mesi fa circa, durante un fantastico Keynote (presentazione, dal nome del programma che proietta su uno schermo quelle che una volta erano diapositive, sui pc si chiama powerpoint), Tim Cook, il nuovo ad della Apple, lancia le proprie mappe per l’iPhone: non si useranno più quelle di Google, con il meraviglioso Street View, ma quelle nuove della Apple, dal nome MAPPE, appunto. Ok, tutto a posto, che ci frega? Sono mappe, che vuoi che cambi? Invece è cambiato tutto: sono dall’alto, sono diverse, in qualche caso a volo d’uccello in 3D, ma soprattutto sono diverse da quelle che si usavano ormai da anni sull’iPhone, non faremo certo il discorso su quanto è più facile cambiare religione piuttosto che giornale, ma è vero che le cose piccole ti mandano in bestia più delle cose grandi: sai benissimo che ci sarebbe una soluzione ma siccome non la trovi perfetta ti arrabbi come una biscia. Sulle cose grandi purtroppo devi chinare il capo e sopportare con rassegnazione. Fatto sta che qualche giorno dopo l’annuncio delle nuove mappe, sull’iPhone compare quel numeretto 1 sugli aggiornamenti da fare e nessuno ha la forza d’animo di sopportare quel numero 1 piccolo, rosso, sul display, invitante come una caramella, anche perché fare un aggiornamento ti fa sentire sempre meglio, sempre “aggiornato”, ti sembra anzi di fare un tagliando al tuo cellulare, ti sembra che funzioni meglio, che qualcuno lo sistemi, insomma spingi quel numero e lui dopo un po’ ti dice OK il tuo telefono è pronto, aggiornato, nuovo, stupendo! Pensavi fino adesso di avere un pezzo di ferro, adesso è ok, lucido, smagliante, una barra d’acciaio lucida! Ok, vai a vedere le nuove Mappe, l’icona è un po’ diversa: primo piccolo disagio, “vabbè mi abituerò, l’uomo si è evoluto da scimmia che era e io non riesco ad abituarmi alla nuova icona di Mappe?” Poi le vedi e non ti piacciono, perché sono belle sì, ma sono DIVERSE, e quindi niente. Non ti preoccupi e dici “tanto, le uso poco”. Passa qualche giorno. E ti ricordi che da maniaco avevi segnato qualche indirizzo dei tuoi amici nella rubrica telefonica, basta cliccarci sopra e come per magia si apre mappe che ti fa federe Street View con il portone esatto di dove abita la tua migliore amica, anzi, te lo fa notare suo figlio, “guarda questa è mamma che torna a casa!”. Ma è meraviglioso, solo a Fabrizia poteva capitare di essere ripresa da una di quelle macchine pazze con mille obbiettivi che giravano per Roma per fotografare le mappe di Street View, ti sembra assurdo ma è proprio così. Sul cellulare del figlio però, perché non appena dici “adesso lo voglio vedere sul mio iPhone, completamente aggiornato con le nuove mappe di Apple” urli dallo sgomento: NON C’È! Perché la funzione di Street View ce l’hanno solo le mappe di Google! E adesso? Ti vuoi ammazzare, e purtroppo non c’è niente da fare. Niente. Poi però è successo che in Australia, la città di Mildura, sulle nuove mappe, era indicata a 70 Km. di distanza dall’effettiva posizione mentre tutti andavano dentro un deserto dicendo “non vedo Mildura...”. Ecco quindi che Apple riconosce il proprio errore e annuncia (ieri) “da oggi ok di nuovo alle mappe di Google!”. Perfetto, tutto risolto? NO! Perché di default comunque si apriranno ancora le mappe sbagliate di Apple e io non potrò rivedere la mia amica Fabrizia che rientra a casa dai suoi figli fino a quando Apple non mi permetterà di scegliere quali mappe aprire, se le sue o quelle mie care vecchie di Google! Per vedere la mia amica. Ma si sa: io sono di parte.
venerdì 14 dicembre 2012
I consigli degli amici
I consigli degli amici sono la cosa più bella del mondo, sono gratis e non servono a niente. Nessuno si mette in imbarazzo se non li metti in pratica, e se invece li segui e poi la faccenda in questione va bene sarai contento di dire “meno male che t’ho dato retta” se invece la situazione si mette male non potrai dire “te possìno, t’ho dato retta” perché l’altro risponderebbe sempre, “ahò, ma io che ne sapevo?”. Quindi te ne stai zitto a scontare il problema rimuginando sul fatto che a quell’amico non solo non gli chiederai mai più un consiglio ma nemmeno come sta! Eppure, non si sa perché (anche Margherita Hack se lo chiede spesso senza riuscire a darsi una risposta) quando siamo indecisi, ricorrere all’aiuto di un amico per chiedere un consiglio sembra davvero l’unico modo per trarsi d’impaccio.
La verità è che non vogliamo prenderci la responsabilità di una decisione e quindi gliela buttiamo addosso con una frasetta semplice e innocua ma che nasconde un trappolone: “Tu che dici?”. Lui sa cosa rischia e risponde in un modo che COMUNQUE vadano le cose, lo salva. Uno fra tutti? Ponzio Pilato. Ergo, non si ottiene niente e ci si ritrova con il problema irrisolto.
Invece ecco come bisogna fare quando veramente si ha bisogno di un consiglio. Non bisogna andare mai da chi ci conosce veramente bene, dall’amico del cuore, mai! Non per cattiveria, ma per troppo affetto avrebbe lo sguardo offuscato dal facile risultato da farci ottenere, e per far bella figura lui: “Hai visto? Cosa ti avevo detto? Sei contento?”. No, bisogna andare dall’amico defilato, dal buon conoscente, dal grande teorico, bisogna offrirgli un caffè o meglio chiedergli se ha tempo di prendere un caffè con noi per darci un consiglio. Non dirà di no. Davanti a un Tazza d’Oro non potrà esimersi dall’ascoltare con attenzione tutti i nostri preamboli, i ritratti dei personaggi, ove mai non li conoscesse già e insomma, la scena è questa: noi genuflessi a parlare sottovoce per non farci sentire da nessuno e lui concentrato all’ascolto come un confessore, non ci guarda mai, niente, solo qualche cenno del capo in senso assertivo, (il NO non prevede movimenti in casi come questi: sta fermo immobile? Vuol dire no). Poi piccola pausa e si fa la domanda di cui sopra: “Tu che dici?”. Da parte sua seguirà un grande respiro e forse una piccola insignificante (alle nostre orecchie) domanda. Ma nel momento stesso in cui la farà, i nostri occhi si spalancheranno sulla VERITA’ e avremo la tentazione di dire “ho capito!”. Stiamo zitti, o si offenderà a morte, facciamolo parlare: la risposta sarà breve e secca. Solo questa è la forma di un vero consiglio. Ricordate inoltre che se a una donna potete chiedere un consiglio su TUTTO, a un uomo non si chiede mai un consiglio su una donna: sarà sempre sbagliato. Tutto chiaro? Bene.
Eppure, non so perché, alla fine di questo pezzo, mi viene in mente mia Nonna che alla fine dei miei discorsi mi diceva sempre: “Ma fa’ un po’ come ti pare!”.
La verità è che non vogliamo prenderci la responsabilità di una decisione e quindi gliela buttiamo addosso con una frasetta semplice e innocua ma che nasconde un trappolone: “Tu che dici?”. Lui sa cosa rischia e risponde in un modo che COMUNQUE vadano le cose, lo salva. Uno fra tutti? Ponzio Pilato. Ergo, non si ottiene niente e ci si ritrova con il problema irrisolto.
Invece ecco come bisogna fare quando veramente si ha bisogno di un consiglio. Non bisogna andare mai da chi ci conosce veramente bene, dall’amico del cuore, mai! Non per cattiveria, ma per troppo affetto avrebbe lo sguardo offuscato dal facile risultato da farci ottenere, e per far bella figura lui: “Hai visto? Cosa ti avevo detto? Sei contento?”. No, bisogna andare dall’amico defilato, dal buon conoscente, dal grande teorico, bisogna offrirgli un caffè o meglio chiedergli se ha tempo di prendere un caffè con noi per darci un consiglio. Non dirà di no. Davanti a un Tazza d’Oro non potrà esimersi dall’ascoltare con attenzione tutti i nostri preamboli, i ritratti dei personaggi, ove mai non li conoscesse già e insomma, la scena è questa: noi genuflessi a parlare sottovoce per non farci sentire da nessuno e lui concentrato all’ascolto come un confessore, non ci guarda mai, niente, solo qualche cenno del capo in senso assertivo, (il NO non prevede movimenti in casi come questi: sta fermo immobile? Vuol dire no). Poi piccola pausa e si fa la domanda di cui sopra: “Tu che dici?”. Da parte sua seguirà un grande respiro e forse una piccola insignificante (alle nostre orecchie) domanda. Ma nel momento stesso in cui la farà, i nostri occhi si spalancheranno sulla VERITA’ e avremo la tentazione di dire “ho capito!”. Stiamo zitti, o si offenderà a morte, facciamolo parlare: la risposta sarà breve e secca. Solo questa è la forma di un vero consiglio. Ricordate inoltre che se a una donna potete chiedere un consiglio su TUTTO, a un uomo non si chiede mai un consiglio su una donna: sarà sempre sbagliato. Tutto chiaro? Bene.
Eppure, non so perché, alla fine di questo pezzo, mi viene in mente mia Nonna che alla fine dei miei discorsi mi diceva sempre: “Ma fa’ un po’ come ti pare!”.
giovedì 6 dicembre 2012
Strisce pedonali
Adesso c’è la moda dell’attraversamento pedonale temerario, vi sarà capitato quel pedone che, quasi con aria di sfida, pur accorgendosi della vostra velocità troppo sostenuta, non rallenta la sua camminata per evitare l’impatto, anzi cerca proprio di venirvi addosso costringendovi alla frenata per farlo passare e salvargli la vita. Ha una faccia arrogante, non si trova sulle strisce, non avrebbe il diritto di passare, ma siccome è un pedone, si sente protetto dal fatto che “sono pedone”. Chi è alla guida del motorino lo evita rallentando, dandogli la precedenza, oppure accelera ancora di più per vedere se si spaventa, (ma a quel punto i casi sono due: o si spaventa o è Clint Eastwood) oppure inchioda esageratamente per farlo passare ma anche per mostrare quale sforzo di generosità ha richiesto la sua arroganza, anche se dopo l’attraversamento lo insulterà ad alta voce per tutto il pubblico lì presente, certo del fatto che quello non lo inseguirà facendo brutta figura con chi ha guardato la scena. Va detto però che questo pedone non si permette la stessa cosa contro una macchina o un autobus o un pullman a due piani, no: ha paura, sono troppo grossi. Non se la sente di rischiare con questi bestioni, preferisce i motorini, confidando nella loro agilità, perché sa benissimo che a bordo dei motorini ci sono molto più facilmente dei pedoni camuffati da motociclisti, e che quindi si sono già comportati come lui.
Tutto questo preambolo per dire che come al solito è tutta una questione di punti di vista e di ruoli. In realtà lui stesso ha un motorino e nel preciso momento in cui ci sale sopra si dimentica di essere stato un pedone insolente fino a pochi momenti prima, trasformandosi in un motociclista che li odia. Ma è la velocità del cambio di ruolo che mi affascina. Vai a piedi e odi i motorini, vai in motorino e odi i tassisti, vai in taxi e odi i motorini, vai in autobus e odi contemporaneamente i pedoni, i taxi e le macchine, vai in macchina e odi i camper. Vai in camper e te ne freghi, tanto hai il camper.
Allora lo sai che faccio? Domani sto a casa, e gioco.
Col trenino.
Tutto questo preambolo per dire che come al solito è tutta una questione di punti di vista e di ruoli. In realtà lui stesso ha un motorino e nel preciso momento in cui ci sale sopra si dimentica di essere stato un pedone insolente fino a pochi momenti prima, trasformandosi in un motociclista che li odia. Ma è la velocità del cambio di ruolo che mi affascina. Vai a piedi e odi i motorini, vai in motorino e odi i tassisti, vai in taxi e odi i motorini, vai in autobus e odi contemporaneamente i pedoni, i taxi e le macchine, vai in macchina e odi i camper. Vai in camper e te ne freghi, tanto hai il camper.
Allora lo sai che faccio? Domani sto a casa, e gioco.
Col trenino.
martedì 4 dicembre 2012
Telecomando fino al 7
In principio era il primo. Poi, nel tempo si è si ascoltata una frase, una specie di ordine, ma che in realtà era l’unico suggerimento possibile per evitare una noia che si protraeva già da 10 minuti: “metti il secondo!” e che c’era? Niente! Tutti a letto e buonanotte. Ma ci si andava tranquilli, si dormiva bene, senza ansie da telecomando, che non esisteva così come non esistevano tutti quei canali da sistemare sulla televisione (quell’oggetto che all’epoca apparteneva più alla categoria merceologica dei mobili e non a quella degli elettrodomestici). Insomma: erano solo due, acceso o spento.
Quando è arrivato il terzo, di cui sapevamo anche il nome, fin dalla nascita, Rai Tre, non è stato difficile aggiungere tutti gli altri fratellini che si chiamavano Retequattro, Canale 5, e Italia 1, che andava bene comunque anche se avremmo preferito Italia 6, per simpatia con il tasto numero 6. Fino a qui ci siamo giusto? Adesso attenzione: oggi possiamo mettere sul tasto numero 7, La7, non è stupendo? Tutto il mondo ti sembra girare meglio attorno al suo asse, tutto ok mi sento più tranquillo. Sì, ma dopo che ci metti fino al 9? Non esistono Rete8 e Tele9, oppure esistono ma chissà dove stanno persi tra i mille altri sul digitale terrestre. Il problema è proprio questo. E riparte proprio dal tasto numero 7, anche se ormai si dava per scontato che lì sopra ci sarebbe rimasta inchiodata, avvitata La7 PER SEMPRE! Sembrava, perché come sapete dalla lettura delle pagine di economia, e non da quelle degli spettacoli, non è detto che La7 ci rimanga. Ci sarà un processo, una decisione, una riunione di chiunque tra garanti, authority, consigli e altri organismi, che deciderà se lasciarla lì per uso capione o meno, fregandosene di quella logica che ci fa stare tanto più tranquilli. Decidano pure quello che vogliono, tanto io poi me li metto in ordine sui “preferiti”. Io sì, certo che ci riesco: basta guardare il libretto d’istruzioni della televisione che anche se l’ho perso me lo scarico in pdf da internet. Ma io m’immagino non più la casalinga di Voghera (che ormai viaggia in suv) ma la vecchia di Cantuccio Ermenate alle prese con queste istruzioni: “Creare la propria lista dei canali preferiti (Profilo) delle varie trasmittenti (fino a 4: da Profilo 1 a Profilo 4). La lista viene visualizzata nella banda delle informazioni a cui si può facilmente accedere. Selezionare un canale e aggiungerlo alla lista. Per visualizzare un altro Profilo, freccia, blu. Per aggiungere tutti i canali alla lista, freccia, giallo. Per modificare Profilo. Selezionare il campo del profilo da modificare e: per nominare il Profilo, freccia, rosso, freccia, selezionare il carattere, tasto con 4 frecce, OK, freccia, Return. Per spostare il canale, freccia, verde, freccia, selezionare la nuova posizione, tasto con 4 frecce, confermare, verde, OK. Per cancellare il canale, freccia, giallo. Per cancellare tutti i canali, freccia, blu. Per memorizzare OK.”.
Che ce vo’?
Quando è arrivato il terzo, di cui sapevamo anche il nome, fin dalla nascita, Rai Tre, non è stato difficile aggiungere tutti gli altri fratellini che si chiamavano Retequattro, Canale 5, e Italia 1, che andava bene comunque anche se avremmo preferito Italia 6, per simpatia con il tasto numero 6. Fino a qui ci siamo giusto? Adesso attenzione: oggi possiamo mettere sul tasto numero 7, La7, non è stupendo? Tutto il mondo ti sembra girare meglio attorno al suo asse, tutto ok mi sento più tranquillo. Sì, ma dopo che ci metti fino al 9? Non esistono Rete8 e Tele9, oppure esistono ma chissà dove stanno persi tra i mille altri sul digitale terrestre. Il problema è proprio questo. E riparte proprio dal tasto numero 7, anche se ormai si dava per scontato che lì sopra ci sarebbe rimasta inchiodata, avvitata La7 PER SEMPRE! Sembrava, perché come sapete dalla lettura delle pagine di economia, e non da quelle degli spettacoli, non è detto che La7 ci rimanga. Ci sarà un processo, una decisione, una riunione di chiunque tra garanti, authority, consigli e altri organismi, che deciderà se lasciarla lì per uso capione o meno, fregandosene di quella logica che ci fa stare tanto più tranquilli. Decidano pure quello che vogliono, tanto io poi me li metto in ordine sui “preferiti”. Io sì, certo che ci riesco: basta guardare il libretto d’istruzioni della televisione che anche se l’ho perso me lo scarico in pdf da internet. Ma io m’immagino non più la casalinga di Voghera (che ormai viaggia in suv) ma la vecchia di Cantuccio Ermenate alle prese con queste istruzioni: “Creare la propria lista dei canali preferiti (Profilo) delle varie trasmittenti (fino a 4: da Profilo 1 a Profilo 4). La lista viene visualizzata nella banda delle informazioni a cui si può facilmente accedere. Selezionare un canale e aggiungerlo alla lista. Per visualizzare un altro Profilo, freccia, blu. Per aggiungere tutti i canali alla lista, freccia, giallo. Per modificare Profilo. Selezionare il campo del profilo da modificare e: per nominare il Profilo, freccia, rosso, freccia, selezionare il carattere, tasto con 4 frecce, OK, freccia, Return. Per spostare il canale, freccia, verde, freccia, selezionare la nuova posizione, tasto con 4 frecce, confermare, verde, OK. Per cancellare il canale, freccia, giallo. Per cancellare tutti i canali, freccia, blu. Per memorizzare OK.”.
Che ce vo’?
giovedì 29 novembre 2012
Tutti in classe
Non c’è niente da fare, niente: prendete una palestra (per giunta illuminata male da neon che renderebbero un mostro anche Sharon Stone ventenne) con un quadro svedese, una rete da pallavolo, un solo canestro da basket, e metteteci un tavolo lungo formato da banchi di scuola. Da una parte 4 professori e dall’altra un gruppo di genitori con figli tredicenni che spauriti si guardano attorno. È sempre un esame. Sempre. Anche se non si tratta di un’interrogazione ma, come in questo caso, di udienze per vendere “un prodotto”, la scuola, dove vostro figlio passerà quei 5 anni che ricorderà come il periodo contemporaneamente più esaltante e avvilente della sua vita. Lì dentro quella scuola, che per il momento può ancora scegliere, passerà tutti gli stati d’animo, costruirà amicizie che solo la vita potrà dire se degne di tale nome, sarà preda dell’arrivo degli ormoni, che lo sconquasseranno come una betulla al vento, sarà un eroe per i suoi compagni o un “soggetto” che dovrà riscattarsi da grande, gli verranno appioppati nomignoli o soprannomi. Conoscerà l’amore più sbagliato della sua vita, il primo, (e forse l’ultimo), e attraverserà soffrendo come un pazzo ma senza rendersene conto la linea d’ombra che dentro quella scuola, lo sta già aspettando. E, come se non bastasse, andrà incontro a tutte quelle esperienze che noi abbiamo già passato all’epoca indenni ma che ora ci fanno una paura da matti: guidare il motorino, fumare per sembrare più grande, fare tardi la sera. E in questo giorno di limbo, dove i ruoli di professori, genitori e studenti, sono solo annunciati ma non ancora interpretati, ci si ritrova ancora per poco sull’orlo di un fiume che scorre tranquillo, grazie a professori che illustrano gli orari settimanali, i laboratori pomeridiani, i corsi di recupero o meglio i TUTORAGGI (manco alla Apple li fanno), la settimana bianca dal al, la gita di classe dal al, gli esami dal al ecc ecc. Un pensiero comincia stranamente a serpeggiare nelle menti dei genitori, di nuovo davanti a un banco lungo con dei professori davanti. Si tratta di un pensiero assurdo, che aggancia le sue radici a una sinapsi dormiente del nostro cervello. Era una sinapsi piena di polvere che si è data una scossa captando certi discorsi: “Il latino e il greco in 4° e 5° ginnasio sembrano non servire ma esplodono poi al liceo, quando una traduzione v’insegnerà senza volerlo a scrivere e a parlare bene in italiano”, oppure “Vi farà conoscere meglio il pensiero di gente di 2000 e passa anni fa, cose che hanno ancora un senso oggi e che purtroppo nessuno dice più”. Quella sinapsi quindi si sveglia e manda in onda nella nostra mente una scritta lampeggiante, che fa sì che lì in mezzo un genitore alla soglia di “perdere” un “bambino” per vederlo diventare “ragazzo”, sente che l’unico modo per stargli vicino e fare di lui un giorno, forse, un “uomo” è questo: STUDIARE!
martedì 20 novembre 2012
In fila alla cassa
Il vero guado della vita privata di ognuno di noi si trova in solo posto che due volta a settimana circa ci aspetta da lontano: c’è gente davanti a noi e tutti hanno la stessa aria di dover prendere la barchetta insieme a Caronte. La fila avanza lenta, a volte s’intoppa, ma poi alla fine il proprio turno arriva: la cassa del supermercato! È mai possibile che il nostro stato civile venga emesso in quel luogo davanti a tutti? Eppure è proprio lì, che con sguardo mite e facendo finta di niente poseremo sul nastro trasportatore gli articoli della nostra spesa rivelando inesorabilmente tutto alla cassiera che in un attimo, il tempo di tre bip del lettore di codice a barre, emetterà la sentenza e di conseguenza farà cadere la mannaia della condanna a morte: “Questo è single!”. Basta poco: una confezione da 2 yogurt magro, 2 buste d’insalata, 4 scatolette di tonno, 1 deodorante, 4 birre, 1 anticalcare... è finita: la carta di credito passerà veloce, un saluto frettoloso e uno sguardo di commiserazione ci accompagnerà all’uscita dove improvvisamente comincerà a piovere e noi ci avvieremo al nostro triste destino di single a casa da soli con il moccio che cola e nessuno a consolarci! Anche il direttore del supermercato ci compatirà, informato dalle cassiere che confermano lo storico degli acquisti: “È sempre così, direttore, ogni tanto prende anche un etto e mezzo di prosciutto, quando invita qualcuno!”. È ora di dire basta a questo scempio pubblico, perché guardate nel nostro carrello e ci fate la lastra ai raggi X? Perché volete farci capire che da soli è brutto, chi ve l’ha detto che a casa non ci aspetta una gattina che ci ha mandato a comprare qualcosa di rinforzo?! Perché se uno ha famiglia o meglio ancora figli, lo sguardo della cassiera è completamente diverso? Pieno di affetto, di solidarietà, di umana comprensione, alla vista di un carrello che si riempie della qualunque, di detersivi per lavare un palazzo, di litrate di coca cola, di chilate di biscotti! Smettetela di fare commenti, perché se mi metto di buzzo buono, vi rovino la diagnosi con un paio di trucchetti che vi fanno saltare tutto in aria. Tipo: improvvisamente tra quei quattro tristi articoli ci metto in mezzo uno struccante! Come la mettiamo? Dopo una settimana, una bella crema mani per la notte Anti Age, e dopo quindici giorni un pacchetto, uno solo, apposta, di assorbenti. Che fate adesso, eh? Che pensate che è arrivata una novità in casa? Oppure, guarda un po’, ecco una bella scatola, anzi due, di tonno da un chilogrammo l’una, da offrire a un gruppo di amici invece che a una famiglia affamata come pensate voi. In realtà si tratta di espedienti per non fare capire più niente a chi giudica dalle apparenze, che la vita cambia ogni giorno e le abitudini si conformeranno di conseguenza e che se proprio si vuole sapere la verità di ognuno di noi non si deve guardare nel carrello della spesa, ma come dice anche Philippe Starck, nell’immondizia!
martedì 13 novembre 2012
La raccolta delle olive
Squilla il telefonino giovedì pomeriggio in un’ora in cui normalmente non squilla mai, sono le 16.22, oppure le 15.08, (fateci caso, andate a vedere “registro chiamate”, non squilla mai, chissà perché) e una voce annuncia: “Ragazzi, questo weekend raccogliamo le olive da me, venite?”. “Dàiiiii!”. Finito. Comincia il weekend che da vecchi ci farà dire “Eh, da giovane andavo a raccogliere le olive, che risate...”. È proprio vero che il tempo è galantuomo. Cominciamo dalla sveglia “Oggi andiamo da Luca a raccogliere le olive, ti ricordi? Gliel’abbiamo promesso!” - “Oddio come mi vesto?”. Si tirano giù dall’armadio i sacchi destinati in parrocchia per prendere quei maglioni ancora ottimi ma che per un motivo o per l’altro non si sono quasi mai indossati, (normalmente coloracci presi euforicamente in compagnia di una ragazza che ci piaceva e che non abbiamo più rivisto). Si va nello sgabuzzino e in fondo (“una volta o l’altra dovrò pulirlo”, questo poteva essere il week end giusto ma vai a raccogliere le olive!) si trova finalmente quel paio di stivali Superga verdi con la para beige di nostro padre che non avete mai usato se non una volta alle elementari quando si era allagata la palestra. Tutto nella sacca, una sdrucita apposta dove c’infilate anche un cambio citizen ma alla “Capalbio” per capirci, quello shabby chic che ci fa sentire disgraziati e milionari contemporaneamente e la voce ti cambia appena entri in una di quelle case arredate così. Si parte! Dove? Pochi chilometri fuori città, pochi, talmente pochi da rimanere delusi: “credevo fosse più lontano...” (e certo, perché di queste operazioni la cosa più bella è il viaggio carico di aspettative, tutto il resto è un interminabile sabato del villaggio). Si parcheggia, cominciano i saluti: tutti vestiti come voi, coloracci e stivali già sporchi della qualunque, nessuno sa fare niente, se non dire questa magica frase: “Ammàzza però, che bella la campagna!”. “Allora, si comincia?” urla Luca, il padrone di casa. “Dài, forza!”: vi sembra impossibile, eppure alla terza saccocciata di olive, saltano le vertebre L5 e S1 contemporaneamente. Dopo appena 30 minuti, vi fa male tutto, anche le ginocchia, nessuno parla più, nemmeno della Roma, e comincia a serpeggiare il pensiero che è la prima e ultima volta della vostra vita che fate una cosa del genere, che la campagna è bella solo in cartolina e che era meglio stare a casa a ritagliare i giornali e a buttare la roba dello sgabuzzino. Ma attenzione: alle 14, quando non avete più speranze, il sudore gocciola sulle mani sporche di terra, il naso cola, il fazzoletto non lo avete dietro (non volevate sporcarlo), un urlo meraviglioso alle vostre spalle annuncia: “È pronto!”. Improvvisamente un sorriso guasto dalla fatica affiora e vi ritrovate tutti quanti a tavola davanti a un salamino, il tempo di lavarsi le mani e recupererete il vostro essere shabby chic “dentro”. Vi muoverete al rallenty, sarete stupendi, seduttivi, charmant, e quando arriva il pane bruscato con un filo d’olio sopra, direte “ammazza che buono, siamo proprio bravi”, e il contadino che ha organizzato tutto nemmeno vi dirà che è quello dell’anno scorso, ma che c’importa? Abbiamo appena costruito il più bel ricordo bluff della nostra vita: la raccolta delle olive.
E quest’anno, fatemi la cortesia, una tanica da 5 e passa la paura!
E quest’anno, fatemi la cortesia, una tanica da 5 e passa la paura!
martedì 6 novembre 2012
Skyfall
Tante cose di 50 anni fa sono ancora tra di noi e hanno scatenato degli sfrenamenti di cui pochi avrebbero potuto prevedere le conseguenze all’epoca: nel 1962 chi gliel’avrebbe detto a chi stava organizzando tutto “guarda che questa è un’idea che tra 50 anni ancora vince?” Fatto sta che Daniel Craig, l’attuale James Bond che ha ormai una certa confidenza con la produttrice Barbara Broccoli, resosi conto che magari una svecchiata gli andava data a questo personaggio, è andato da lei, e le ha detto: “Senti Barbara, hai due minuti? Bond mi piace e tu mi paghi bene. Adesso questo personaggio fa 50 anni, è nell’immaginario collettivo da due generazioni ormai, tuo padre è morto e quindi adesso ti dico come si fa il prossimo, ok?” - “Dimmi Daniel, che pensavi?” -“Allora lo facciamo vecchio e stanco, ha bevuto non so quanti kilolitri di vodka-martini, fumato non so quante stecche, fatto a botte che manco Cassius Clay, adesso s’è stufato, non gliela fa più e sta su una spiaggia a guardare il tramonto. Poi comincia la storia e va bè, gli attori sono io e gli altri li scegli tu. Però io chiamo come regista Sam Mendes” - “Ma chi? Quello di American Beauty, di Era mio padre, di Revolutionary Road? Ma che c’entra?” - “Appunto: niente, e quindi solo lui lo può fare Bond, perche a lui Bond fa schifo!”. Con questo ragionamento pazzo un uomo come Daniel Craig che deve la sua fortuna al fatto di non saper recitare nei film in cui lavora, riesce invece a convincere Sam Mendes a girare questo Bond in giro per il mondo ma soprattutto in Europa, a Londra e un pochino in Scozia, quindi comodo, la sera negli alberghi, il telefonino prende, cose così ecc ecc. Sam accetta ma a un’unica condizione: la musica la deve fare Thomas Newman, il suo compositore di fiducia. Craig prende la metro, del resto siamo a Londra, credo che fosse la “Circle Line” (quella gialla e verde per capirci, che insieme con la “District” non ci capisci niente) e torna da Barbara Broccoli che gli chiede “Ma chi? Quello di American Beauty, di Era mio padre, di Revolutionary Road? Ma che c’entra?” - “Appunto: niente, e quindi solo lui lo può fare Bond, perche a lui Bond fa schifo!” lei accetta ma pone un’ulteriore unica condizione “va bene tutto Daniel, però se le musiche le deve fare questo Thomas, la tromba la deve suonare sempre e solo Derek Watkins, ok? Non vorremmo certo far mancare la tromba che da 50 anni suona sempre nelle colonne sonore di James Bond, no?”. E allora questo progetto per il 50° compleanno di 007 finalmente prende piede. Grazie a tre persone che con Bond c’entravano tutto e niente. E noi possiamo finalmente vedere il più bel film sull’agente segreto più famoso del mondo grazie a una piccola differenza: non è un film di 007, ma un film “con” 007.
L’unico numero che può dire di sé: il mio nome è Bond, James Bond.
L’unico numero che può dire di sé: il mio nome è Bond, James Bond.
mercoledì 31 ottobre 2012
The day after 50
Organizzare il festeggiamento dei 50, è più o meno peggio di un matrimonio. Prima cosa da fare: la fatidica mail “SAVE THE DATE”: prima va visto sul calendario se per caso non ci sia PROPRIO il giorno del tuo compleanno una partita di Champion’s, un anticipo di campionato, se non un recupero, o una prima pazzesca al cinema tipo il restauro di “C’era una volta in America”. Tranquillo: ci sarà sempre qualcosa, fregatene e vai avanti rassicurandoti con il karma “Aho, faccio 50 anni, varrà di più di un derby, noo?”. No, però dài, andiamo avanti. Spedisci le mail e vediamo che succede. Che mangiamo? Mica ti metterai ai fornelli, no? Catering e basta. Un amica che cucina? Può essere, ma solo se lo ha già fatto da qualcun altro. Ora le conferme degli inviti: NESSUNO CONFERMA. Non gliene frega niente nemmeno se scrivi enorme RSVP. Tra di loro si chiedono “Tu ci vai?” - “Boh, vedo all’ultimo...”. Non te la prendere, hai fatto la stessa cosa tu quindici giorni fa, non era tuo amico e va bene, ma chi si crede tuo amico è proprio per questo motivo che te lo dirà all’ultimo: siete amici! Lista per i regali, siccome la verità è che non ti serve più niente ma TUTTI quelli che verranno comunque vorranno farti un regalo, per evitare i profumi sbagliati, un tagliacarte, o un apribottiglie, devi fare una lista da Eataly di derrate alimentari di qualità, sapendo che verrà il giorno in cui una lista la farai presso l’agenzia di assicurazioni che gestisce le polizze sanitarie. È arrivato il grande giorno. Succederà l’esatto contrario di quello che pensavi, ma peggio. Verranno tutti quelli che eri sicuro sarebbero mancati e non verrà nessuno di quelli sui quali contavi eccetto 5, cinque in lettere: conta esclusivamente su di loro per il resto della tua vita, dammi retta. A chi ha preso un treno o addirittura un aereo, per esserci, devi dare la copia delle chiavi di casa tua. Tra chi non viene vanno salvati quelli che hanno paura di incontrare qualcuno con il quale hanno litigato, meglio: non ti cambieranno l’atmosfera di festa. Poi quelli che all’ultimo si sentono male, beati loro, poi quelli che “stasera piove dove lo trovo un taxi”, non s’invitano più. Invece a quelli del giorno dopo che se la cavano con un sms, non rispondere nemmeno. Anche perché tra questi sms te ne arriverà uno da parte della compagnia telefonica “L’offerta per i suoi sms è scaduta. D’ora in avanti fino al prossimo rinnovo varranno le precedenti condizioni del suo contratto”: il che vuol dire un euro a sms! Della serata non ti ricorderai niente e quando vedrai le foto che hanno scattato non ti riconoscerai: sei quello zombie che sta in tutte le foto accanto agli ospiti. Non ti rimane che affrontare i regali: che ci fai? Dove li metti? Dove li cambi? È un altro lavoro che affronterai dal giorno dopo per circa un mese.
Comunque, consolati: è finita. I 50 sono andati e, tu non lo sai ancora, ma quando un giorno ti guarderai indietro, capirai che oggi sei felice!
Comunque, consolati: è finita. I 50 sono andati e, tu non lo sai ancora, ma quando un giorno ti guarderai indietro, capirai che oggi sei felice!
mercoledì 24 ottobre 2012
50
50 anni equivalgono a 18250 giorni, il calcolo è semplice, si moltiplica 365 giorni per 100 (= 36500) e dividi per 2. Il che vuol dire che anche solamente a 36000 giorni, per amore di cifra tonda non tutti ci arrivano... magari a 35000... ma insomma... Meglio contare in anni: fa meno paura!
Fatto sta che il club dei 50, comincia ad assomigliare al salotto inglese dell’immaginario collettivo. I divani sono più comodi, la seduta è più ampia, le luci sono giuste, i giornali ci sono tutti. Ovviamente non è certo quello dei 60, quello sì che ha i divani Chester in pelle capitonnet, la pendola d’ordinanza, il maggiordomo sociale con i whisky e i bourbon offerti nei giusti bicchieri, i sigari nel proprio armadietto con umidificatore incorporato. È solo lì che il “gioco” si fa serio: con i giocattoli costosi che la vita (adesso che hai imparato la lingua del tempo che scorre) ora ti permette di utilizzare con la sufficienza di chi se li può permettere. In confronto, il club dei 40 sembra un salotto Ikea, il primo della tua vita,
per non parlare di quello dei 30, che assomigliava solo alla reception di una palestra. E a proposito di palestra è proprio lì che t’iscrivi con la fiducia (dopo i 50 è così che chiami la speranza) di diventare presto, prestissimo come quell’allenatore così “tonico”, così in forma, in una parola, così giovane. E non giovanile, come sei, se tutto va bene.
Anche il linguaggio cambia, soprattutto nelle arrabbiature, se prima dicevi “ma insomma a 40 anni se permetti ecc. ecc.” oggi quando dici “ma insomma a 50 anni se permetti ecc. ecc.” ti sembra che abbia davvero un senso, a differenza di quella detta “appena” 10 anni fa. Anche se in realtà questa cifra cominci a dirla due anni prima, un po’ per scaramanzia, un po’ perché ti dai un tono. Ti accorgi che quando entri nei negozi o in generale chi ti si rivolge comincia a darti subito del lei: un po’ ti piace questo fatto, un po’ ti irrita, soprattutto se è una bella ragazza. Come mai? Nel senso che se ti compri ancora un jeans e non ti vergogni, VUOI che ti diano immediatamente del tu, vuoi essere il migliore amico di tutti i commessi del negozio per quei 15 minuti in camerino mentre sudi cercando di farteli entrare e di scegliere quelli giusti secondo loro e non secondo te. Ma se entri in una galleria d’arte ESIGI che ti sia dia del lei solo per il fatto che ci sei entrato. Come mai? Quando vedi una giovane madre che compra il dvd di Peter Pan per il suo bambino, senti che oggi ti sta più simpatico Capitan Uncino e meno quel Peter Pan. Come mai? Perché Peter Pan, anche se è il primo film che da piccolo hai visto al cinema, non è cresciuto come te, che oggi SEI Capitan Uncino e come lui odi così tanto quel coccodrillo che lo insegue per tutto il film. Perché il coccodrillo ha ingoiato una sveglia e quando si muove fa tic tac, tic tac, tic tac... Hai capito adesso? Certo! Perché tu non lo vuoi sapere, ma hai 50 anni. Auguri!
Fatto sta che il club dei 50, comincia ad assomigliare al salotto inglese dell’immaginario collettivo. I divani sono più comodi, la seduta è più ampia, le luci sono giuste, i giornali ci sono tutti. Ovviamente non è certo quello dei 60, quello sì che ha i divani Chester in pelle capitonnet, la pendola d’ordinanza, il maggiordomo sociale con i whisky e i bourbon offerti nei giusti bicchieri, i sigari nel proprio armadietto con umidificatore incorporato. È solo lì che il “gioco” si fa serio: con i giocattoli costosi che la vita (adesso che hai imparato la lingua del tempo che scorre) ora ti permette di utilizzare con la sufficienza di chi se li può permettere. In confronto, il club dei 40 sembra un salotto Ikea, il primo della tua vita,
per non parlare di quello dei 30, che assomigliava solo alla reception di una palestra. E a proposito di palestra è proprio lì che t’iscrivi con la fiducia (dopo i 50 è così che chiami la speranza) di diventare presto, prestissimo come quell’allenatore così “tonico”, così in forma, in una parola, così giovane. E non giovanile, come sei, se tutto va bene.
Anche il linguaggio cambia, soprattutto nelle arrabbiature, se prima dicevi “ma insomma a 40 anni se permetti ecc. ecc.” oggi quando dici “ma insomma a 50 anni se permetti ecc. ecc.” ti sembra che abbia davvero un senso, a differenza di quella detta “appena” 10 anni fa. Anche se in realtà questa cifra cominci a dirla due anni prima, un po’ per scaramanzia, un po’ perché ti dai un tono. Ti accorgi che quando entri nei negozi o in generale chi ti si rivolge comincia a darti subito del lei: un po’ ti piace questo fatto, un po’ ti irrita, soprattutto se è una bella ragazza. Come mai? Nel senso che se ti compri ancora un jeans e non ti vergogni, VUOI che ti diano immediatamente del tu, vuoi essere il migliore amico di tutti i commessi del negozio per quei 15 minuti in camerino mentre sudi cercando di farteli entrare e di scegliere quelli giusti secondo loro e non secondo te. Ma se entri in una galleria d’arte ESIGI che ti sia dia del lei solo per il fatto che ci sei entrato. Come mai? Quando vedi una giovane madre che compra il dvd di Peter Pan per il suo bambino, senti che oggi ti sta più simpatico Capitan Uncino e meno quel Peter Pan. Come mai? Perché Peter Pan, anche se è il primo film che da piccolo hai visto al cinema, non è cresciuto come te, che oggi SEI Capitan Uncino e come lui odi così tanto quel coccodrillo che lo insegue per tutto il film. Perché il coccodrillo ha ingoiato una sveglia e quando si muove fa tic tac, tic tac, tic tac... Hai capito adesso? Certo! Perché tu non lo vuoi sapere, ma hai 50 anni. Auguri!
martedì 9 ottobre 2012
Sette meno un quarto la mattina
Sette meno un quarto suona la sveglia (suoneria arpa) dell’iPhone, ti butti giù dal letto, vai in bagno, poi in cucina per organizzare la prima colazione, se sei furbo hai messo ieri notte già fuori le tazze i bicchieri i cucchiai e ti sembra quindi di aver fatto già metà del lavoro. Mentre aspetti il caffè svegli i bambini, li mandi in bagno, gli fai fare colazione, li vesti, ti vesti, esci, compri il giornale che non riuscirai mai a leggere, trovi la macchina messa chissà dove ieri sera (cioè appena 12 ore fa) e li porti a scuola: sono le 8, forse le 8,10 e non ti neghi un altro caffè al bar davanti la scuola in compagnia di altri genitori più o meno assonnati come te, individui immediatamente i divorziati da quelli che ancora stanno insieme e fai un rapido esame di coscienza per capire quale gruppo ti sembra più consono a te a prescindere dal tuo personale stato civile. Forse ci scappa un cornetto, vai in ufficio dopo aver parcheggiato inutilmente e dopo aver perso un’altra mezz’ora ti riprometti di prendere i mezzi pubblici una volta o l’altra. Lavori, vorresti stare a dieta a pranzo, ma alle 1250 ti avvisano che “per lavoro” c’è un bel lunch da affrontare. Ordini un’insalata ma t’impongono qualcos’altro, devi accettare, come anche di seguire i discorsi con sorrisi e riflessioni ficcanti. Torni in ufficio, chiami tua madre o la babysitter o la tata per controllare se con i bambini è tutto ok. Lavori, mail, telefono fisso, telefonino, riunioni, con un pezzo di vita privata che cerca d’introdursi in orario di lavoro come una riunione di condominio da fissare, il consiglio di scuola, una cena da organizzare. Torni a casa facendo svariate commissioni di tutti i tipi dalle scarpe da ritirare ai libri di scuola che non erano ancora arrivati, al motorino che è morto, tutto questo passando davanti alla palestra, tanto per farti prendere una bella botta di sensi di colpa. Parcheggi la macchina e ti viene in mente quell’immagine che hai appena visto di quella ragazza di Milano che con gonna e tacchi si è rotolata sotto una saracinesca della metropolitana per uscire dalla stazione e non rimanerci dentro, in gabbia. Ti riprometti di non prendere i mezzi pubblici e mentre chiudi la macchina con un colpo di telecomando automaticamente ti scordi di dove l’hai messa, te ne accorgerai solo domani mattina che te lo stavi dimenticando in questo momento. Ah, la spesa, che prepari stasera per cena? E pensi in un loop senza fine “Primo e secondo, no solo secondo, no solo contorno, no solo uno yogurt e vado a letto. Ai bambini che gli do?”. Arrivi a casa e comincia il Maracanà. Dovrai rilassarti, ma come, ma quando soprattutto? Che c’è in televisione? Ballarò, così ti vengono pure un po’ di nervi, e allora ti versi una vodka dopo aver mangiato primo, secondo, poco, un dolcetto, piccolo. Stai sul divano e la palpebra ti sembra la parte più pesante del tuo corpo. “Ma che vita è questa? Che vuol dire? Basta!” pensi quando vai a letto. E prima di dormire arriva un’idea: “Domani però mi taglio i capelli.”.
PS: la foto non c'entra molto, come altre volte in questo blog
PS: la foto non c'entra molto, come altre volte in questo blog
venerdì 28 settembre 2012
Qual è meglio?
Adesso ditemi come si fa a non desiderare il vecchio tastierino dell'iPhone (quello sopra), prima dell'aggiornamento a iOS6...
PS: scrivetelo nel commento, lo giro alla Apple.
martedì 4 settembre 2012
Senza E.T.
E quindi era un piovoso sabato di dicembre di 30 anni fa, quando mi sporcai le mani per incastrare la catena tra la forcella del vespone blu PX125 senza chiappe (era più fico, poveraccio me) e un palo col divieto di sosta: ero lì sul marciapiede davanti al Supercinema di Roma, alle 2145, tre quarti d’ora prima dell’ultimo spettacolo alle 2230, che mi smanacciavo con un fazzoletto di carta Tempo, maledicendomi per la mia ansia di fare presto. Nel foyer davanti alla maschera l’unica mia preoccupazione era quella di fiondarmi dentro la sala per occupare tre posti con un piumino della Colmar in attesa di altri due amici, in ritardo come al solito, pensando quanta fatica costava andare al cinema sempre in questo modo ma senza sapere che un uomo, prima di me, s’era sporcato le mani, e parecchio, per quello stesso film. Quell’uomo si chiamava Carlo Rambaldi.
Oggi che non c’è più, possiamo capire perché proprio Rambaldi e non Spielberg è stato definito il papà di E.T. l’Extra-Terrestre. Perché Rambaldi ha rappresentato quel tipo di padre che tutti noi per un periodo della nostra vita abbiamo avuto. Quel genere di padre che s’industriava a fare un teatrino per noi stando accovacciato dietro il divano con due calzini, ecco perché, come abbiamo letto nelle ultime interviste, Rambaldi odiava i computer, non ne aveva bisogno: lui gli effetti speciali li CREAVA dal nulla come Geppetto da un pezzo di legno tirava fuori Pinocchio. La prima messa in scena della vita, la prima alla quale si assiste strabiliati, molto probabilmente è stata realizzata da un padre. Una madre è imbattibile nel leggere una favola (la voce suadente, melliflua, da donna, da sirena, in realtà ci stendeva solo per questo, la storia è ininfluente, facendoci venire sonno all’istante, dove esiste un sonnifero oggi così potente non si sa, forse è per questo che ci si sposa), ma è il padre a organizzare il teatrino, a costruirlo con 4 carabattole rimediate dentro casa, gli “effetti speciali” sono roba sua. Rambaldi ha fatto questo: con la colla, il legno, gli stracci, le plastiche, ma senza i computer di oggi, senza tastiere, senza wireless, senza display Retina. Gli stessi sui quali rivedendo E.T. riesce ancora oggi, 30 anni da quel giorno, a farci commuovere sempre negli stessi identici punti per 115 minuti.
Quindi grazie Carlo, adesso vado a rivedermi E.T. per l’ennesima volta.
Senza lavarmi le mani.
Oggi che non c’è più, possiamo capire perché proprio Rambaldi e non Spielberg è stato definito il papà di E.T. l’Extra-Terrestre. Perché Rambaldi ha rappresentato quel tipo di padre che tutti noi per un periodo della nostra vita abbiamo avuto. Quel genere di padre che s’industriava a fare un teatrino per noi stando accovacciato dietro il divano con due calzini, ecco perché, come abbiamo letto nelle ultime interviste, Rambaldi odiava i computer, non ne aveva bisogno: lui gli effetti speciali li CREAVA dal nulla come Geppetto da un pezzo di legno tirava fuori Pinocchio. La prima messa in scena della vita, la prima alla quale si assiste strabiliati, molto probabilmente è stata realizzata da un padre. Una madre è imbattibile nel leggere una favola (la voce suadente, melliflua, da donna, da sirena, in realtà ci stendeva solo per questo, la storia è ininfluente, facendoci venire sonno all’istante, dove esiste un sonnifero oggi così potente non si sa, forse è per questo che ci si sposa), ma è il padre a organizzare il teatrino, a costruirlo con 4 carabattole rimediate dentro casa, gli “effetti speciali” sono roba sua. Rambaldi ha fatto questo: con la colla, il legno, gli stracci, le plastiche, ma senza i computer di oggi, senza tastiere, senza wireless, senza display Retina. Gli stessi sui quali rivedendo E.T. riesce ancora oggi, 30 anni da quel giorno, a farci commuovere sempre negli stessi identici punti per 115 minuti.
Quindi grazie Carlo, adesso vado a rivedermi E.T. per l’ennesima volta.
Senza lavarmi le mani.
domenica 15 luglio 2012
I quadri
I quadri. Un nome spaventoso: non sono quelli di casa. Sono quelli di scuola. Appesi in una bacheca di legno chiaro, da poco, con il vetro sottile, con la toppina della serratura, quasi da casa delle bambole. Basterebbe appoggiare leggermente una mano per mandare tutto in frantumi, compreso quello che c’è dentro: i risultati dell’esame di maturità. Nemmeno la Gioconda è stata mai guardata con tanta cupidigia come quei pezzi di carta formato A3, recanti in una parola o nella sua negazione, un giudizio universale. Forse non c’è in tutta la nostra vita un timore più legato all’incertezza come quello sguardo febbrile a quei pezzacci di carta che recheranno la prima sentenza della nostra vita. Come una mannaia sulle nostre teste, una lama che potrebbe fermarsi, ma non è detto fino a quando non leggi, fino a quando non senti che si blocca, fino a quando il sibilo dell’aria smossa dalla lama non si arresta all’improvviso... un pollice che, a prescindere da COME sia andato l’esame, rimane orizzontale fino alla completa comprensione della lettura della parola micidiale: MATURO. È solo insicurezza, d’accordo, ma c’è. E non la togli: magari impazziscono tutti e scrivono la parola sbagliata che nemmeno vuoi pensare. In quel caso immagina pure un boia vestito da ferroviere che s’incammina sul binario numero uno della tua vita, arriva alla fine della pensilina, prosegue a piedi sulle rotaie incurante della scritta “non attraversare i binari” per arrivare a una grande leva. Alza le braccia, le appoggia sopra un pomellone e ride sardonico verso il tuo sguardo umido: sta spostando la leva di uno scambio che ti manda dritto dritto verso un’altra vita, non quella di tutti i tuoi compagni di scuola ma chissà dove, “è andata così, mi dispiace, io eseguo gli ordini” ma sotto sotto gli viene da ridere, vorresti ucciderlo ma è impossibile, è tutta un’immaginazione, no? Ma certo pensa pure che “tutto andrà bene, in fin dei conti lo scritto pare che l’hanno toppato tutti, io all’orale sono andato benino, no?”. Te lo ripeti come una litania e anche gli altri vedi che lo ripetono tra sé e sé. Anche se pensano al traghetto per la Grecia, che non hanno prenotato apposta per tripla o quadrupla scaramanzia al contrario con salto mortale!
Quella mattina andrai a scuola per l’ultima volta della tua vita, a maniche corte con una maglietta che speri di bagnare presto con gavettoni di felicità! E mentre leggerai MATURO, non farai in tempo a urlare la tua gioia che incontrerai lo sguardo di una biondina che, non lo sai ancora, ma ti farà scordare quella che pensavi essere l’ultima paura della tua vita! Te li farà prendere lei gli spaventi veri e io te l’auguro perché della maturità non ti rimarrà nient’altro che un incubo ricorrente ogni 5 anni. Circa.
Quella mattina andrai a scuola per l’ultima volta della tua vita, a maniche corte con una maglietta che speri di bagnare presto con gavettoni di felicità! E mentre leggerai MATURO, non farai in tempo a urlare la tua gioia che incontrerai lo sguardo di una biondina che, non lo sai ancora, ma ti farà scordare quella che pensavi essere l’ultima paura della tua vita! Te li farà prendere lei gli spaventi veri e io te l’auguro perché della maturità non ti rimarrà nient’altro che un incubo ricorrente ogni 5 anni. Circa.
giovedì 5 luglio 2012
Solo per stasera
Solo per stasera, amiche, amiche mie, vi do una dritta pazzesca, da mettere in pratica solo stasera. Oggi è una sera d’estate, fa caldo, forse un paio di amici hanno organizzato un’insalata di riso, per stare un po’ insieme, fare due chiacchiere, qualcuno durante la serata si aggiungerà, molto bene, tutto tranquillo. A un certo punto, stasera, cambierete improvvisamente atteggiamento urlando: “Metti subito RAI UNO!”. - “Che succede?” vi chiederanno spaventati, e voi trionfanti, sprezzanti e saccenti risponderete: “C’è lo Strega! Ma ché non lo sai? Forza, metti Rai Uno subito!”. Ecco la dritta, dovrete parlare con la stessa passione, la stessa foga, e lo stesso coinvolgimento con il quale i vostri mariti, compagni e amici parlano di calcio, TUTTO L’ANNO!
Come? Ecco qui: dando per scontato certi concetti come fanno loro (come si fa a non sapere che Cassano gioca col 10?). Invece voi: “Trevi, Piperno, Carofiglio! Rizzoli, Mondadori, Ponte alle Grazie, ti rendi contoo? Ma stasera come può finire, Dio aiutami per favore!”.
Voto dopo voto, paletta dopo paletta, guardando i risultati alla lavagna potrete esclamare qualsiasi cosa: “NOO! Ma sono matti, ma così non ce la potremo fare mai!”.
Nessuno vi capirà e finalmente farete provare la brutta sensazione dell’essere emarginati, di essere fuori da un giro, di non contare niente, di non avere uno straccio di argomento da utilizzare in un momento pazzesco come questo. Dovete sapere a memoria i vincitori degli ultimi anni del premio (Ammanniti, Giordano, Scarpa, Pennacchi e Nesi) come anche i primi storici vincitori (Flaiano nel 47, Cardarelli, Pavese, Moravia), le loro case editrici, esattamente come le squadre di calcio, è uguale: Mondadori, Bompiani, Longanesi, Rizzoli (erano i cognomi dei loro presidenti, proprietari e fondatori, erano persone, non marchi!). Alla prima pubblicità potrete chiedere arrogantemente di svuotare i posacenere e di avere un gelato o addirittura, vista l’ora e lo stress, un giro di vodka! Alla fine, magari tardissimo, chiederete di tornare a casa , magari con il muso lungo, senza parlare, se il vostro scrittore preferito ha perso, o nel caso di andare a fare un giro a Piazza del Popolo per farvi un tuffo nella fontana e una foto ricordo a cavalcioni dei leoni con in mano, pensate, UN LIBRO, urlando: “Facci sognare, Piperno facci sognare, Facci sognare, Piperno Facci sognare!” Ma com’è?
Come? Ecco qui: dando per scontato certi concetti come fanno loro (come si fa a non sapere che Cassano gioca col 10?). Invece voi: “Trevi, Piperno, Carofiglio! Rizzoli, Mondadori, Ponte alle Grazie, ti rendi contoo? Ma stasera come può finire, Dio aiutami per favore!”.
Voto dopo voto, paletta dopo paletta, guardando i risultati alla lavagna potrete esclamare qualsiasi cosa: “NOO! Ma sono matti, ma così non ce la potremo fare mai!”.
Nessuno vi capirà e finalmente farete provare la brutta sensazione dell’essere emarginati, di essere fuori da un giro, di non contare niente, di non avere uno straccio di argomento da utilizzare in un momento pazzesco come questo. Dovete sapere a memoria i vincitori degli ultimi anni del premio (Ammanniti, Giordano, Scarpa, Pennacchi e Nesi) come anche i primi storici vincitori (Flaiano nel 47, Cardarelli, Pavese, Moravia), le loro case editrici, esattamente come le squadre di calcio, è uguale: Mondadori, Bompiani, Longanesi, Rizzoli (erano i cognomi dei loro presidenti, proprietari e fondatori, erano persone, non marchi!). Alla prima pubblicità potrete chiedere arrogantemente di svuotare i posacenere e di avere un gelato o addirittura, vista l’ora e lo stress, un giro di vodka! Alla fine, magari tardissimo, chiederete di tornare a casa , magari con il muso lungo, senza parlare, se il vostro scrittore preferito ha perso, o nel caso di andare a fare un giro a Piazza del Popolo per farvi un tuffo nella fontana e una foto ricordo a cavalcioni dei leoni con in mano, pensate, UN LIBRO, urlando: “Facci sognare, Piperno facci sognare, Facci sognare, Piperno Facci sognare!” Ma com’è?
giovedì 31 maggio 2012
Ero pazzo di lei
Ero pazzo di lei, semplicemente. Perché, manco me lo ricordo. Si potrebbe dire per “Pretty Baby”, ma in realtà quella bella era Susan Sarandon, Brooke era una bambina troppo truccata con un capoccione. “Laguna Blu?” Ma per favore, uno dei più brutti film al mondo. Allora “Amore senza fine” di Franco Zeffirelli, un film così così ma tratto da un romanzo di Scott Spencer che illustrava l’amore assurdo di un adolescente, qualcosa che prima o poi abbiamo passato tutti pensando di avere trovato la donna della nostra vita troppo presto (molti si sono sposati e hanno divorziato in tre anni con figli e case da spartire). Ma non è nemmeno per colpa di quel film che persi la testa. No, ora me lo sono ricordato. Sbroccai per una frase detta da lei, ma scritta da un altro, per la campagna dei primi jeans firmati da uno stilista (Calvin Klein). La frase era: “Volete sapere cosa passa tra me e i miei jeans Calvin Klein? Niente!”. All’epoca, sempre 1981 ovviamente, bastava e avanzava. “Ah, quindi questa fa la modella?” mi dicevo e via a comprare tutti gli Harper’s Bazaar, Vogue, Cosmopolitan, per vedere le sue foto: pagine e pagine di roba straordinaria e inutile ma sfogliare lentamente quelle immagini pazzesche con il sottofondo del Concerto in sol di Ravel era esaltante, mentre imparavo a memoria i nomi dei fotografi che all’epoca erano ragazzi fortunati di trent’anni e oggi sono considerati dei guru dell’immagine, peraltro miliardari e sposati con modelle di tuttora stupefacente bellezza. Scrutare, ammirare, guardare quelle foto, comunque bellissime, ha inconsapevolmente fissato uno standard impossibile da eguagliare in bellezza, appunto, ma anche glamour e forse stile di vita, quello dei fotografi?
Oggi Brooke compie 47 anni. Chissà con chi chissà perché.
Posso anche farle gli auguri, ma solo perché di lei ero pazzo.
Visto che oggi ho capito che mi ha rovinato.
Oggi Brooke compie 47 anni. Chissà con chi chissà perché.
Posso anche farle gli auguri, ma solo perché di lei ero pazzo.
Visto che oggi ho capito che mi ha rovinato.
lunedì 21 maggio 2012
lunedì 14 maggio 2012
I Fratelli Gibb
Una bella notizia di un paio di settimane fa ci aggiornava sul risveglio dal coma di Robin Gibb, uno dei Bee Gees, ad opera di Barry, suo fratello, che per giorni al capezzale gli ha cantato personalmente una canzone nell’orecchio: sono i vantaggi di andare in coma e avere un fratello cantante... Nella fattispecie si trattava di “Crying” di Roy Orbison, quello di “Pretty Woman”. Il pezzo non ha un titolo tipico da risveglio, da coma tra l’altro, e anche ad ascoltarlo su YouTube si ha la sensazione che in passato qualcosa non abbia funzionato a casa Gibb. Ma io dico: ma se devi svegliare tuo fratello dal coma cantagli almeno una canzone delle vostre, no? Tipo, “Stayin’ Alive”, che anche solo dal titolo è meglio, no? Però, vallo a sape’, se a Robin piaceva quella... in effetti si è svegliato. Magari per dirgli soltanto: “ahò, e basta co’ ‘sta pizza!”.
Comunque facciamo tutti gli auguri ai fratelli Gibb che personalmente mi sono sempre stati simpatici e con il loro capolavoro nel 1977 ci hanno fatto credere di essere capaci un giorno di rimorchiare anche solo ballando. E se ci pensate un attimo ci sono riusciti: quando nelle cene di oggi, un pazzo che si è stufato si alza e con l’iPod connesso allo stereo di casa fa partire un pezzo de “La Febbre del Sabato Sera” qualcuno sicuro rimorchia quella ragazza, ora donna, che gli era sempre piaciuta ma non aveva mai osato dirglielo!
PS: A Barry, meno male che non gli hai cantato la vostra “Tragedy”.
Comunque facciamo tutti gli auguri ai fratelli Gibb che personalmente mi sono sempre stati simpatici e con il loro capolavoro nel 1977 ci hanno fatto credere di essere capaci un giorno di rimorchiare anche solo ballando. E se ci pensate un attimo ci sono riusciti: quando nelle cene di oggi, un pazzo che si è stufato si alza e con l’iPod connesso allo stereo di casa fa partire un pezzo de “La Febbre del Sabato Sera” qualcuno sicuro rimorchia quella ragazza, ora donna, che gli era sempre piaciuta ma non aveva mai osato dirglielo!
PS: A Barry, meno male che non gli hai cantato la vostra “Tragedy”.
martedì 24 aprile 2012
Quando torni a casa presto la sera
Quando si torna a casa presto la sera c’è un momento che non appartiene a nessuno: è quell’orario compreso tra la sera che sta finendo e la notte che non è ancora cominciata. Insomma, un’altra zona grigia terribile: ti sembra che tutto quello che hai fatto oggi non sia servito a niente e quindi cadi nella trappola del bilancio, delle domande, dei dubbi. La testa comincia ad avvilupparsi su un passo di vite che non porta da nessuna parte, cominci a notare quello che ti circonda e ogni cosa ti fa riflettere. Guardi quei due ragazzi che sulla strada stanno litigando, per cosa ti chiedi, lui fa gesti veloci con le braccia, lei lo guarda in silenzio e pensi che sia una sciocchezza e probabilmente è vero...
Due signori, lui con il cappotto e lei con una pelliccetta, tornano a casa dal cinema delle 8, si saranno mangiati una cosetta prima del film e tra poco andranno a dormire...
Due spazzini stanno preparando le cose da far raccogliere al camioncino che li segue muovendosi lento e con la coda di macchine dietro che non riescono a superarlo. Tu lo incroci nell’altro senso e ti accorgi dello sguardo dell’autista fisso sul volantino e pensi che quell’uomo conosce quella strada come forse nient’altro nella sua vita...
In un negozio due commesse stanno allestendo la vetrina del giorno dopo, avranno lavorato tutto il giorno e stanotte gli tocca pure fare tardi lì dentro in mezzo a manichini dalle taglie impossibili...
Gli studenti di una classe in gita stanno facendo un coro per farsi coraggio in una città di cui non ricorderanno niente fino a quando non ci torneranno per lavoro e solo allora potranno dire “io qui c’ero venuto per i 100 giorni!”.
Un tipo che non sapresti dire come è vestito cammina smanettando sull’iPod per cercare una canzone che possa accompagnarlo per il resto della notte. Ti viene in mente che ne hai uno anche tu dietro e ti sembra la soluzione a questa sera che non vuole finire e diventare notte per farti dire che anche oggi è passato. Ma mentre lo cerchi il taxi si ferma a un semaforo e vedi un uomo vestito da lavoro, con il trench alzato sul collo, ti spaventa, perché ci metti un secondo a riconoscerlo: sei tu. Dici all’autista che va bene anche qui e guardi il tassametro, preparandoti a lasciare una mancia che non importa perché stasera non ti va di aspettare il resto. E fai quegli ultimi passi verso casa, con un po’ di musica nelle orecchie, butti un altro sguardo addosso a questa città che chissà perché stasera non ti sembra amica. Perché questa sera sei tornato a casa presto.
Da solo.
Due signori, lui con il cappotto e lei con una pelliccetta, tornano a casa dal cinema delle 8, si saranno mangiati una cosetta prima del film e tra poco andranno a dormire...
Due spazzini stanno preparando le cose da far raccogliere al camioncino che li segue muovendosi lento e con la coda di macchine dietro che non riescono a superarlo. Tu lo incroci nell’altro senso e ti accorgi dello sguardo dell’autista fisso sul volantino e pensi che quell’uomo conosce quella strada come forse nient’altro nella sua vita...
In un negozio due commesse stanno allestendo la vetrina del giorno dopo, avranno lavorato tutto il giorno e stanotte gli tocca pure fare tardi lì dentro in mezzo a manichini dalle taglie impossibili...
Gli studenti di una classe in gita stanno facendo un coro per farsi coraggio in una città di cui non ricorderanno niente fino a quando non ci torneranno per lavoro e solo allora potranno dire “io qui c’ero venuto per i 100 giorni!”.
Un tipo che non sapresti dire come è vestito cammina smanettando sull’iPod per cercare una canzone che possa accompagnarlo per il resto della notte. Ti viene in mente che ne hai uno anche tu dietro e ti sembra la soluzione a questa sera che non vuole finire e diventare notte per farti dire che anche oggi è passato. Ma mentre lo cerchi il taxi si ferma a un semaforo e vedi un uomo vestito da lavoro, con il trench alzato sul collo, ti spaventa, perché ci metti un secondo a riconoscerlo: sei tu. Dici all’autista che va bene anche qui e guardi il tassametro, preparandoti a lasciare una mancia che non importa perché stasera non ti va di aspettare il resto. E fai quegli ultimi passi verso casa, con un po’ di musica nelle orecchie, butti un altro sguardo addosso a questa città che chissà perché stasera non ti sembra amica. Perché questa sera sei tornato a casa presto.
Da solo.
giovedì 29 marzo 2012
A portata di mano
Attaccati a una scrivania. Prendete un metro. Fatelo partire da una spalla. Misurate fino alla mano. Totale? A me 70 centimetri. Deve essere tutto a 70 centimetri. TUTTO. Quindi il telefono, il portamatite, un fermacarte, un posacenere se per caso ancora fumate (affari vostri), il computer, la stampante, i fazzoletti di carta, una candela profumata (meglio una Diptique o una Rigaud), qualche telecomando, le agendine, i Moleskine, il fermacarte con tutti i biglietti del cinema (per segnarli sull’agenda) e le ricevute delle carte di credito, e anche una bottiglia d’acqua. Tutto deve essere entro il raccordo anulare personale dal raggio di 70 centimetri perché spostare il busto per raggiungere un’altra cosa sarebbe uno sforzo troppo grande, come se un movimento in più potesse togliere quel secondo che servirebbe per altro, niente deve distrarre dall’attenzione sulla cosa che stiamo facendo come, per esempio, mettere un pensiero per iscritto. Anche i bambini, se non ce la fanno con il loro braccino a prendere quello che desiderano in quell’istante, non hanno altra risorsa che il pianto, proprio perché non riescono ad ottenere l’oggetto del loro desiderio: solo ora capisco che non è un capriccio (anche se i genitori continuano a chiedergli “ma che ci fai con quel sonaglio, che ti frega?”) ma l’improrogabile esigenza d’inseguire un pensiero per portarlo a compimento. E dare un senso a tutto, in poche parole: cominciare e finire una cosa, mettiamola così. Anche perché se mettessimo insieme tutti i secondi impiegati per raggiungere, a questo punto chiamiamolo pure “obbiettivo”, che risultato darebbe la somma? Una bottiglia d’acqua in cucina, 20 secondi; l’agendina all’ingresso 8; accendere lo stereo 5 secondi. Andata e ritorno, eh? Quindi non è certo per risparmiare tempo ma insomma solo per non essere disturbati da sciocchezze che lì vicine sono importanti solo per il fatto di essere dentro il raggio d’azione di un braccio lungo 70 centimetri. Ed è per questo che anche a tavola deve essere tutto vicino, mi piacerebbe addirittura che tutte le portate fossero già pronte lì in sequenza, come su un binario che porta dritto dritto in stazione. Alternative per avere tutto a portata di mano? Mi viene in mente solo il direttore d’orchestra, fai un gesto e chiunque esegue. Anche una sinfonia, dall’inizio alla fine, senza interruzioni. E infatti avrei voluto fare il conservatorio, ma mia madre mi disse “prendi il classico, a mamma” e ora eccomi qui a filosofeggiare...
mercoledì 21 marzo 2012
Ghostbusters
Andate a vedere il film di Ferzan. Un gruppo di attori ormai fantasma restano intrappolati dal dopoguerra in una casa di Monteverde a Roma in attesa di essere liberati da un ragazzo che diventa loro amico oggi, nel 2012. Mi chiedo: ma un regista lo sa cosa scatena nelle teste di chi poi vedrà il film, quando butta giù due righe con uno sceneggiatore? Immaginate la prima riunione: “Che ne dici di un ragazzo che prende in affitto una casa dove abitano dei fantasmi?”. E l’altro: “Perché no?”. E via! Cominciando a lavorare per farci viaggiare insieme a loro qualche mese più tardi quando una lampada si accenderà su una bobina di pellicola proiettando le loro idee sugli schermi della nostra mente, ecco perché se volete perdervi nei meandri di una storia che potevano raccontarvi in un’altra vita, dovete prendere un autobus, o meglio un tram, e buttarvi dentro un cinema dove lo fanno. Andatevelo a vedere se vi piace essere portati per mano da un uomo, Ferzan che, turco, ci conosce meglio di noi stessi, capace ogni volta di raccontarci storie davanti allo specchio per farci vedere come siamo veramente, o cosa diavolo vorremmo essere, veramente. Se volete vedere TUTTI gli attori in grado di recitare TUTTE le battute del film bene, senza una stonatura che vi distragga da tutti gli altri reparti del film: se volete rivedere Anna Proclemer e capire quanto è bello sentire i toni di voce modulati secondo le esigenze, che solo l’esperienza di una vita può far suonare in quel modo, se volete ammirare la bellezza e la giustezza di tutti gli altri (Beppe Fiorello dovrebbe uscire di casa così tutti i giorni!). Se volete vedere una serie d’inquadrature illuminate come un dipinto grazie alla bravura del direttore della fotografia, Maurizio Calvesi. Se sognate una casa come quella, scenografata a Cinecittà, ma che vi sembra proprio quella dove avete vissuto i momenti più belli della vostra vita, dove ogni angolo vi ricorda qualcosa e ha un profumo diverso secondo le ore del giorno. Se volete ascoltare le canzoni (come Perfidia cantata da Nat King Cole) che vi fanno sentire meglio all’istante e al cinema pensate a quanto siete scemi a non averle ancora messe sul vostro iPod. Se volete uscire dal film leggeri e pieni di speranza e riflettere sulla vostra esistenza e capire che veramente non è mai troppo tardi fino a quando non si scrive la parola fine, andate a vedere questo film che, come tutte le cose vere della vita, ti fa ridere e ti fa piangere. Perché se nella vita non riuscite a fare a meno dei vostri fantasmi tanto vale farseli amici.
giovedì 15 marzo 2012
On the bike
È incredibile come il primo passo che stendi sull’asfalto perché hai deciso che oggi vai a piedi, ti faccia sentire il principe della strada, ti sembra che tutti vadano più lenti di te, e credi di essere l’unico a camminare con quel passo spedito e risoluto che DA SEMPRE accompagna tutta la tua vita in qualsiasi circostanza. Quel nastro di catrame, quell’insieme ordinato di sampietrini, quel lastricato di basalto ti sembra un tappeto rosso che ti porta di filato al successo, sfila veloce sotto i tuoi piedi come un tapis roulant impazzito, e non fai in tempo nemmeno a notare i suoi cambi di superficie che sei già arrivato...
È incredibile come il primo colpo di pedale a bordo di una bici dia sempre un nuovo significato alla parola movimento. Metti la punta della scarpa da ginnastica (molti la chiamano sneakers, io non riesco) sul pedale, carichi il ginocchio indietro come per prendere una rincorsa, spingi la gamba in giù: miracolo, quella parte, e un po’ di fresco in faccia di colpo ti toglie tutti gli anni che hai accumulato da quel giorno in cui hai detto a tuo padre che ti teneva il sellino da dietro: “lasciami, ci so andare da solo!”. Ti sorprendi a suonare quel campanello in un modo diverso dal clacson, questa volti SEI TU che passi, non la tua macchina, ti viene in mente che comunque è meglio il “drin-drin” che il “ding-dong”, e lasciamo stare la sensazione che provi a risentirlo, perché lo sguardo invidioso degli altri pedoni al tuo passaggio è troppo gratificante: domani dovranno tirare fuori la bici anche loro...
È incredibile come il primo colpo che dai con la mano serrata a tavoletta in una piscina ti faccia sentire libero come un pesce anche nel chiuso di una vasca da pochi metri, ti basta un costume da bagno e un paio di occhialetti, per il resto sei solo tu e l’acqua che ti circonda come una vita fa nel grembo materno. È solamente mentre nuoti, grazie a quei movimenti che ancora ti stupisci di avere imparato troppo tempo fa, che ti senti addosso tutto quello che sei con pregi e difetti ma, guarda un po’, più leggero, meno pesante
(grazie al principio di Archimede, che ti torna in mente pure quello). Bracciata dopo bracciata, a prescindere da quanto ci metti, ti sembra che avere l’acqua nelle orecchie sia l’unico momento della tua vita in cui ragioni davvero: ti serve quel gorgoglìo per capire che nella vita alla fine basta muoversi. E da oggi è il tuo principio. Come quello di Archimede!
PS: nella foto un uomo in bicicletta
È incredibile come il primo colpo di pedale a bordo di una bici dia sempre un nuovo significato alla parola movimento. Metti la punta della scarpa da ginnastica (molti la chiamano sneakers, io non riesco) sul pedale, carichi il ginocchio indietro come per prendere una rincorsa, spingi la gamba in giù: miracolo, quella parte, e un po’ di fresco in faccia di colpo ti toglie tutti gli anni che hai accumulato da quel giorno in cui hai detto a tuo padre che ti teneva il sellino da dietro: “lasciami, ci so andare da solo!”. Ti sorprendi a suonare quel campanello in un modo diverso dal clacson, questa volti SEI TU che passi, non la tua macchina, ti viene in mente che comunque è meglio il “drin-drin” che il “ding-dong”, e lasciamo stare la sensazione che provi a risentirlo, perché lo sguardo invidioso degli altri pedoni al tuo passaggio è troppo gratificante: domani dovranno tirare fuori la bici anche loro...
È incredibile come il primo colpo che dai con la mano serrata a tavoletta in una piscina ti faccia sentire libero come un pesce anche nel chiuso di una vasca da pochi metri, ti basta un costume da bagno e un paio di occhialetti, per il resto sei solo tu e l’acqua che ti circonda come una vita fa nel grembo materno. È solamente mentre nuoti, grazie a quei movimenti che ancora ti stupisci di avere imparato troppo tempo fa, che ti senti addosso tutto quello che sei con pregi e difetti ma, guarda un po’, più leggero, meno pesante
(grazie al principio di Archimede, che ti torna in mente pure quello). Bracciata dopo bracciata, a prescindere da quanto ci metti, ti sembra che avere l’acqua nelle orecchie sia l’unico momento della tua vita in cui ragioni davvero: ti serve quel gorgoglìo per capire che nella vita alla fine basta muoversi. E da oggi è il tuo principio. Come quello di Archimede!
PS: nella foto un uomo in bicicletta
mercoledì 7 marzo 2012
Quell'estate dell'anno che verrà...
Immaginate una nonna che, per esaudire un desiderio del nipote ottenne, si rechi in un negozio di dischi il cui commesso era il figlio del portiere, per trovare la sigla di un programma tv condotto da tale Lucio Dalla e si metta addirittura a cantare “lettera X dov’è il segreto di Asterix?”. Niente! Oggi che “Fumetto” (tratto dall’album “Terra di Gaibola”) è un mp3 sull’iPod, facciamo i conti con le canzoni di Lucio Dalla che dall’infanzia ci hanno accompagnato nella vita. Per esempio “L’anno che verrà”, uscito da un giradischi davanti agli amici della prima estate che meritasse quel nome, l’estate dove potevi tornare tardi la sera, la notte, tanto era casa di zia e lei lo permetteva. Quella musica ti faceva guardare una ragazza negli occhi come forse poi non sei più riuscito a fare e come ancora oggi ti auguri di guardarne un’altra. Era l’estate nella quale ridevi, ridevi, e ridevi. Ridevi di tutto: di un motorino che cade dal cavalletto, di un pezzo di pizza che scotta, di una notte in bianco, di uno scherzo che ti hanno fatto o che magari hai fatto tu. E ogni volta che riascolti questa canzone senti che non hai più niente che ti faccia ridere così tanto e improvvisamente cominci a piangere. Nel “1983” forse stavi già lavorando anche se molti non la pensavano così e quella canzone ti accompagnava dalle cuffie di un walkman che ti eri comprato con i primi soldi tuoi. E con quelle note nell’orecchio, nei primi ascolti in solitaria, la testa ti girava a mille perchè ti sentivi ricco visto il tempo che avevi davanti e i mille scambi in stazione ti davano la sensazione di poter scegliere qualsiasi binario per vedere dove poteva portare. E poi “Caruso” che ascoltata proprio da quella nonna ti ha permesso di dirle “ti piace, vero? L’ha scritta quello che cantava “Fumetto” quando ero piccolo...”. E quella canzone ha messo d’accordo almeno tre generazioni. E mettere d’accordo la gente è un’arte che non tutti sanno praticare, anzi. Ecco perché poi in un momento della tua vita in cui stavi facendo qualcosa qualcuno ti ha dato la notizia che Lucio Dalla non c’era più, ti è venuto da piangere. Perché in un momento immenso hai rivisto tutti gli anni che sono passati da quella sigla ascoltata in tv, passando per quell’estate e tutto quello che c’è stato dopo. E ti accorgi che andare d’accordo con la gente che ti sta attorno è sempre più difficile ma forse è l’unica cosa che dovresti fare.
giovedì 1 marzo 2012
L'ultima luna
Questa canzone, “L’ultima luna” di Lucio Dalla, l’abbiamo sentita per la prima volta quando un amico ce l’ha fatta ascoltare una notte nella sua macchina, una mini 90, buttata nel parcheggio di un brutto camping. Io questa storia delle lune non le ho mai capita con quel testo che, boh, però questo giro era da paura e ci ha fatto sempre da colonna sonora quando qualcosa d’importante ci capitava nella vita, facendoci pensare che forse avevamo imparato una lezione.
Forse era una di quelle lune quando dopo un’intera settimana a chiedere il permesso di fare una gita a Todi con tutti i compagni di classe, alla fine, la sera prima della partenza mi sono preso la febbre a 40 e da quel momento li ho “persi” tutti. E quando poi finalmente sono riuscito a fare una gita con loro non era più la stessa cosa, perché mi ero perso quella prima e quindi non avevo quei riferimenti.
E abbiamo imparato pure questa...
Forse era una di quelle lune quando a quella ragazza che mi piaceva veramente non sono riuscito a dirglielo ma le ho regalato un anello! E lei ha capito che volevo sposarla! Ma io no, e non sapevo come dirglielo, nemmeno questo, insomma né sì né no, né troppo né troppo poco, e mille equivoci e lei l’ha buttato via, io l’ho raccolto ma non potevo darlo a nessun’altra e quando poi l’ho ritrovato in un cassetto l’ho buttato io.
E abbiamo imparato pure questa...
Forse era una di quelle lune quando finalmente abbiamo conosciuto la ragazza giusta, ma era troppo presto, o troppo tardi, o non ci andava, o non le andava, insomma non è diventata la donna della nostra vita ma forse lo era e una mattina dal tempo incerto abbiamo capito che era lei. Ma il giorno dopo il tempo era bello e abbiamo capito che non era lei. Ma alla fine bello o brutto ci pensiamo tutti i giorni.
E abbiamo imparato pure questa...
Forse era una di quelle lune quando quella volta eravamo all’ospedale perché c’eravamo fatti male sul serio, e in camera, quando ormai non si può più, quando si è fuori orario, e tu hai già cenato e ti viene da piangere da solo lì dentro, si apre la porta ed entra l’ultima persona che volevi vedere, perché lo odiavi per mille motivi ma in quel momento non te ne viene in mente nemmeno uno.
E abbiamo imparato pure questa...
Quando ti sei sentito veramente solo, e senza più una motivazione, e non riuscivi nemmeno ad alzarti dal letto, e non volevi vedere nessuno. È in quel momento che pensi che tutto quello che hai fatto non ti è mai piaciuto e forse non è servito a niente e pensi che magari ormai è andata così e tanto vale lasciarselo alle spalle. Ma mentre lo pensi ti prende un colpo quando senti una mano sulla spalla che ti fa girare e vedi uno che ti guarda e ci metti quel secondo in più che serve a un cervello stanco per capire che è lui, quell’amico di tanto tempo fa che ti aveva fatto conoscere l’ultima luna. E ha la stessa faccia che aveva quella sera nel parcheggio dentro la mini 90.
mercoledì 29 febbraio 2012
Quando il paletto della porta...
“Metti il paletto”. Dentro casa è una parola che dovremmo sentire solo quando siamo piccoli per le prime prove di coraggio che ci vengono permesse di dare. Quando poi lo siamo diventati il paletto non va più messo, per lo stesso motivo: siamo più grandi, anzi, vecchi. E certo: il momento in cui chiederemo a un amico di prendersi le chiavi di casa “perché, non si sa mai, facciamo le corna, però nel caso, tienile”, sarà la subliminale conferma che QUALCUNO potrebbe darci una mano e quel qualcuno non siamo più noi. A quel punto, una volta date le chiavi all’amico, e la sera prima di andare a dormire si mette il paletto, siamo degli imbecilli. Certo: perché gli rendiamo difficile tutto il soccorso che dovrebbe dare. Tu, amico soccorritore, devi chiamare i pompieri per farli entrare e togliere il paletto, magari è un paletto di quelli che manco i pompieri e allora “tocca butta’ giù la porta!”, bello, no? Poi entri e lo trovi riverso con il naso rotto, cerchi bottiglie di bourbon in giro (un po’ alla William Holden), non ci sono, ma la prima frase che dice è “ma adesso la porta come si richiude?”. Vorresti ucciderlo definitivamente ma ti fa pena e allora lasci perdere, prepari il caffé ai pompieri per ringraziarli e dici loro che adesso ci pensi tu all’amico tuo, ma loro ti ricordano che devono chiamare il 118 comunque, anche se si è SOLO rotto il naso. E quindi arrivano quelli del 118 e fanno mille domande a te perché lui ancora biascica e tu rispondi sì alla domanda patibolo “Quindi lei rifiuta il ricovero?” addossandoti la responsabilità di un malessere improvviso che al momento non sembrava. Gli prepari un caffé anche a quelli del 118, e intanto chiami il tuo migliore amico che ovviamente DEVE essere un medico e che ti consiglia di portarlo in clinica “perché in ospedale un naso sai quando te lo guardano?”. Lo porti lì e ti piace subito un’infermiera e speri che l’amico tuo ci rimanga un po’ lì dentro, così potrai fare lo scemo con lei. Mentre gli fanno le lastre si avvicina una segretaria che ti chiede se l’amico tuo ha un’assicurazione, tu rispondi per te trionfalmente: “Io sì, ma lui non credo proprio, ma non si preoccupi, pagherà tutto!”. Dopo averlo sistemato in camera torni a casa e avverti tutti gli altri dandogli il numero della stanza. E in quel momento suoneranno alla porta: è la tua ex fidanzata che vuole litigare svegliando il condominio, in quel caso con la mano sinistra chiudi delicatamente il paletto e ti prendi un sonnifero pensando ai racconti che farai all’indomani all’infermiera che incontrerai sulla porta della stanza del tuo amico. Ma questa è tutta un’altra storia...
mercoledì 22 febbraio 2012
Un uomo e Sanremo
Dietro gli ascolti dell’ultimo Festival di Sanremo ci sono litri di Prosecco, di Franciacorta, di qualche champagne, ormai cimiteri di bottiglie per il riciclo, chili di pasta, formato corto, condita con sughi pratici per non schizzare su vestiti, centinaia di buste d’insalata (inutilizzata), decine di cabaret di frappe, sigarette, vodke, limoncelli. Tutti consumati in questa settimana di 5 serate vissuta in una girandola di inviti come nemmeno a Natale, gole roche per i commenti live con gli ospiti a casa e polpastrelli consumati da sms e tweets lanciati nell’etere per commentare con gli sconosciuti dei social network. Sanremo è finito. E pure noi. Siamo a pezzi, e riprendersi non sarà facile: servirebbe una settimana in una beauty-farm, ma molto più probabilmente ci accontenteremo di una zucchina lessa e acqua naturale per un paio di giorni, più per prenderci in giro che per rimetterci in forma: non vediamo l’ora che arrivi Pasqua! Chi non ha bisogno di riposo perché abituato alle maratone nel senso stretto del termine è Gianni Morandi. L’ho conosciuto durante una trasmissione su Radio Due: eravamo ospiti entrambi e per lui avevo scritto un pezzo sulla sua invidiabile forma fisica ottenuta però a caro prezzo con una dieta ferrea che non ammette distrazioni di nessun tipo e che noi non potremmo mai permetterci. Gianni ascoltò il pezzo divertito (meno male) e anzi mi seguiva partecipando. Alla fine, come da scaletta, mi chiedono una sua canzone da mandare in onda e io chiedo “Varietà” di Lavezzi-Mogol. Gianni si sorprende del titolo scelto (ognuno ha la sua preferita) e la musica parte, ma mi prende un braccio e mi dice: “Dài, cantiamola insieme!”. Lasciamo perdere l’esito della performance, ma Morandi che mi suggeriva le parole strofa per strofa accompagnandomi tra le pieghe melodiche di quel pezzo è stato esattamente quell’uomo che poi ho visto quest’anno a Sanremo: accompagnare con un sorriso tutto quello che gli stava succedendo attorno. Ma avrete notato come a un certo punto della serata abbiamo pensato: “Ma Gianni è stanco!”. Perché, noi no? Eravamo stravolti dalla stanchezza e vederlo lì in mezzo a quella maratona sembrava quasi di sentirlo dire: “Dài, amici, restate con me, tra poco è finito e ce ne andiamo tutti a casa!”. Ora che Sanremo è finito e noi con lui, rimane una sola raccomandazione: fatelo come volete ma un po’ più corto, perché Gianni è allenato e fa 1000 km all’anno di corsa, noi ci facciamo 1000 litri di prosecco, ma poi andiamo a dormire!
mercoledì 15 febbraio 2012
Voglia di emergenza
Quali sono i negozi dentro i quali ci si sente meglio? La farmacia è senz’altro al primo posto per forza di cose, al secondo spesso si trova un salumiere, ma oggi ci metterei il ferramenta, perché io di questi tempi voglio vivere nell’emergenza, o meglio voglio saperci vivere, per essere sempre preparato al peggio. Lo trovo quasi eccitante per un fatto di tigna: “succedesse pure quello che deve succedere: io sono pronto!”. In questi giorni di vero inverno (così almeno i telegiornali hanno capito che hanno fatto male a usare tutti quegli aggettivi superlativi l’anno scorso), andare in un ferramenta reca conforto. È lì dentro infatti che potremo comprare quel magnifico scotch americano telato grigio capace di tenere insieme anche i pezzi in frantumi della nostra psiche. Una torcia, sempre americana, una Maglite (quelle sciabolate di luce viste nel film di Spielberg per cercare ET nel bosco) per fare luce nel buio della nostra esistenza. Invece molti si sono lamentati dell’obbligo delle catene a bordo, ma come? Ci piace tanto essere equipaggiati con il corredo tecnico degli atleti per non avere freddo e poi non ci mettiamo una catena a bordo perché nevica ogni 35 anni? E se viene giù pure l’anno prossimo che fai, ti arrabbi? Compra ‘ste catene e falla finita! Anche se va detto che cercarle la scorsa settimana entrando in un autoricambi sembrava di stare alla borsa di New York con tutti che urlavano i numeri dei parametri delle gomme: “Io sono una 135! Ma ne voglio 4, ok? - Ti accontenti di una? - Ok: è buono per me!”. Per poi scoprire che una signora le comprava per non mancare l’appuntamento con l’estetista per una ceretta irrinunciabile!
Nel 1980 uscì un libro per Sugarco, autori due ex ufficiali della Marina Militare Americana, dal titolo “Manuale di sopravvivenza”. Tradotto in italiano riportava le regole per cavarsela su un ghiacciaio, nel deserto, in mare aperto, nella giungla. Me lo sono comprato ma che ci ho fatto? Niente: del resto saperci orientare senza carta e bussola in città non serve, ce la caviamo comunque dopo avere localizzato l’edicola e il bar più vicini per raggiungere il tabaccaio, e alla fine “il Manuale delle Giovani Marmotte” basta e avanza... Comunque tra poco sarà tutto finito e non ci resterà che aspettare l’arrivo dell’estate che, già ve lo dico, sarà ovviamente “torrida”. Nel frattempo per non sapere né leggere né scrivere io mi sono comprato una torcia e un rotolo di scotch, hai visto mai che invece nevica?
mercoledì 8 febbraio 2012
La nevicata del 12
E quindi era 27 anni fa che a Roma venne giù un po’ di neve paragonabile a quella di questo weekend appena passato?Era quando al cinema c’era Ghostbusters, Amadeus e The Blues Brothers? Quando Elton John cantava Nikita? E quando in tv Arbore faceva “Quelli della notte”? Fatto sta che quella mattina arrivò una telefonata di un amico che lanciava l’idea di andare a fare un giro con la sua Mini 90 per vedere Roma con la neve, o meglio, più che Roma, l’unico posto fuori casa che conoscevamo bene come il nostro quartiere: scuola. Ci sentivamo fieri di possedere le catene in virtù di qualche gita al Terminillo, ci sentivamo eroi nel montarle sotto gli sguardi disinteressati delle nostre amiche al seguito, e tutto questo per andare davanti al cancello del liceo e fare una foto al lucchetto della catena che lo chiudeva, ricoperto di neve; una con l’autoscatto per testimoniare che tutti noi avevamo sfidato le intemperie su Ponte Flaminio, in modo da vedere Monte Mario sullo sfondo che somigliava a una qualunque pista blu della Val Gardena e un’altra ovviamente di fronte al getto ghiacciato di una fontanella del Villaggio Olimpico. Basta. E certo: perché si trattava di una macchina fotografica con un rullino di pellicola a colori all’interno che avremmo sviluppato solo dopo aver scattato tutte le 36 pose disponibili, quindi alla Pasqua successiva, quando quelle foto in soli quattro mesi si sarebbero trasformate da ricordi che erano nella preistoria personale di ognuno di noi. Oggi che invece quella nevicata ci sembra ieri vediamo tutto con altri occhi: se stiamo lavorando tiriamo giù qualsiasi moccolo per urlare “ma guarda che robba! Come faccio a torna’ a casa?”, ma non appena ci danno il via libera ci torna il sorriso: “Aho però è bello, ve’?” fino a quando non ci rendiamo conto che la macchina la dobbiamo lasciare sotto l’ufficio e si deve tornare a casa a piedi senza i moonboot. Solo in un secondo momento, magari con l’aiuto di un iPod che ci isola da tutto, anche dal silenzio delle strade, noteremo un giocattolo sbattuto sul muro dei palazzi da un bambino che già si annoia dei suoi genitori, le impronte delle scarpe dei romani, quasi tutte a papera, (non sembrava senza neve!), o le mani porcine di un uomo sul volante della sua macchina con il finestrino abbassato mentre sta finendo di fumare una sigaretta. Come a dire che sopra e sotto la neve alla fine c’è sempre Roma! E la prossima nevicata degna di tale nome? Le statistiche dicono che se non viene domani, sarà tra altri 35 anni. Paura? Chi la vedrà? Ma soprattutto chi la ricorderà?
mercoledì 1 febbraio 2012
Cosa le donne amano degli uomini
Niente, si sa. In un bar domenica scorsa è entrata una coppia ottuagenaria, in ottima forma con movimenti giustamente misurati. Lei in pelliccia, lui in cappotto. Problema: il “loro” tavolo era occupato dal sottoscritto che leggeva il giornale con un caffè. Mio sguardo basso per evitare i fulmini e le saette della signora che a voce alta dice ”si può andare anche nell’altra stanza per ordinare?”. Tutti le rispondono di sì, ma lei insiste, sottolinea: “allora andiamo nell’altra stanza, caro, perché qui non c’è posto!”. Accompagna il marito e torna con ben altro passo davanti al bancone dove il barista attende la comanda. “Scusate ma ero impegnata a organizzare mio marito, due cappuccini decaffeinati grazie”. A questo punto l’ho guardata. Era un’altra: sistemato il marito aveva ripreso possesso della sua indole, cinguettava con il barista sul freddo di questi giorni, salutava un amico, e poi tornava al tavolo dal compagno della sua vita per godersi il breakfast e gli argomenti domenicali. Ho pensato: quel marito anni fa si sarà comportato come si deve con lei, avrà ordinato altro che due cappuccini deca, ma ostriche e champagne, avranno viaggiato insieme, lui le avrà ceduto il passo, aperto la macchina, insomma tutto, no? E adesso che è successo? Perché fa tutto lei? Perché sono cambiati i ruoli?Perché l’altra settimana ho sentito al pronto soccorso oftalmico un marito chiedere al medico di turno di far entrare anche la moglie perché “lei capisce tutto di ticket”? Io mi chiedo allora, se siamo così imbecilli, cosa amano di noi le donne? Mistero. Secondo me è solo un gioco delle parti, in seduzione ci permettono di fare tutto, anche se sanno già cosa faremo. Ma poi i ruoli si ribaltano e l’uomo diventa un esecutore di cose pratiche ma di bassa manovalanza tipo parcheggiare fuori da un teatro, o un cinema mentre lei prende i biglietti (così non sbaglia posto o spettacolo, come farebbe lui) o andare a prendere la suocera il giorno di Natale, oppure cambiare una lampadina. Finito. Visto che anche per una cena solo le donne che decidono il giorno perché il loro calendario è molto più aggiornato del nostro. Ed è giusto così: la donna, nata dalla costola di un essere creato dal fango di uno sputo, con una mela, una che è una, ci ha fatto capire che il verio genio è lei. E sapete perché? Perché di una donna ci si innamora, o si può, anzi si deve, diventare amici, ma per lei si rimarrà sempre e soltanto un figlio.
mercoledì 25 gennaio 2012
Cena di classe
Prima o poi nella vita arriva un sms di un vecchio compagno di classe che dice di essere in città per una sera: “c’è qualcuno che vuole venire a cena?”. Tra tutti gli ex comincia una girandola di conferme e smentite con impegni presi o da disdire legati tra loro da un’unica domanda finale “tu ci vai?”. Nessuno, proprio come succedeva a scuola, ha il coraggio di dire sì per primo, forse perchè ha paura di essere lasciato SOLO con quell’ex compagno di classe che per una sera della sua vita si trova nella sua città di una volta i cui ricordi sono legati ancora a un edificio, il liceo di quand’era ragazzo. E poi, proprio come in classe, sbuca fuori il primo “sì io ci vado, tu?”, detto con tranquillità, scioltezza, eleganza, di chi sa che non ha niente da perdere da una serata del genere, anzi “forse ci facciamo una risata, perché no?” e tutti dietro: “allora pure io, pure io, pure io!” Vedete come a volte ci si lascia imbracare dalle paranoie solamente per la paura di non farcela da soli. Alla spicciolata arrivano un po’ di amici in un bar scelto più per comodità logistica che non per l’atmosfera giusta, tanto quella si creerà al primo sguardo verso chi ci conosce come le nostre tasche. Finito l’aperitivo, il passo successivo sarebbe quello di salutarsi per riprendere ognuno il filo della propria agenda, ma guarda caso, si nota che negli occhi di tutti c’è rimasto tanto da dirsi e la voglia di andarsene non c’è. Si comincia a prendere un altro appuntamento per la “prossima volta, per una cena tutti insieme, dài!”, ma in realtà tutti si attaccano al cellulare e cominciano a disdire gli impegni presi prima: “Non sai cos’è successo poi ti spiego, scusami con tutti, ci sentiamo domani, adesso non posso parlare”. Famiglie, amici, conoscenti, tutto finito: SIAMO LIBERI. E adesso? “Spaghetto da me?” - “Sìììì!”. Via! Il bar esplode in un urlo liberatorio, tutti a gara per pagare quelle 4 noccioline e gli spritz ingurgitati più per sciogliersi che per il piacere di berli: stasera champagne! Perché davanti a quel linguaggio di gente che trent’anni fa si mandava a quel paese senza sapere perché, non c’è niente che regga. Non è Natale, ma è il Natale che tutti vorremmo vivere la sera di Natale. Non per i ricordi, ma solamente per una lingua, quella che non parliamo più con nessuno, mogli, figli, al lavoro, i nuovi amici, nessuno. Nessuno può conoscere la lingua che parlavo io trent’anni fa se non SOLO quelli che la parlavano con me in quella classe con i banchi in formica. Ed è per questo che la risposta a quel messaggio di un ex compagno di classe sarà sempre “Sì!”.
mercoledì 18 gennaio 2012
Lettera a un bambino che sta per nascere
Tra pochi giorni nascerà un figlio a una coppia amica e vorrei scrivergli due righe: il padre e la madre adesso non hanno il tempo. Caro Edoardo, come vedi hanno già scelto il tuo nome e per fortuna è bello, è inglese e ha la R, sentimi bene: te lo dico subito che nasci in un periodaccio, ma è su di te che noi puntiamo tutti, non solo i tuoi genitori, ma tutta l’Italia, e visto che nasci nel 2012 tutta l’Europa e a questo punto tutto il mondo. Oggi, Roma, è soltanto la tua città di nascita, è un dato che accompagnerà il tuo codice fiscale per sempre, non sarà certo la città della tua vita, che dovrà svolgersi dove vorranno le tue passioni. Anche se tu non capirai niente di tutto quello che vedrai e ascolterai per i prossimi 1000 giorni, ti posso dire che in realtà qualcosa chiamato imprinting, ti forgerà tuo malgrado: suoni, luci, sapori, sensazioni, tutto contribuirà a creare in quell’hard disk vuoto che ti ritrovi ciò che noi chiamiamo carattere. Devo dire che parti bene, conosco i tuoi e i loro DNA sono buoni e generosi: per ora è la tua unica eredità, non sciuparla... Ecco invece una dritta: dovrai avere molta pazienza con loro che diventano genitori nell’esatto momento della tua nascita, non l’hanno mai fatto prima, e mentre tu potrai sbagliare perché non sai niente, loro dovranno stare molto attenti, ma capirai molto presto che errare è, appunto, umano. Dopo i primi giorni di clinica, comodissimi vedrai, te ne andrai in una casa tutta per te, ti piacerà di più, ma per tua madre sarà un inferno. Prova a metterti nei suoi panni, ogni 4 ore ti sfamerà, poi ti cambierà e tu per ringraziamento ti farai una dormita, e dopo si ricomincia: se qualche volta salta un turno porta pazienza, noo? Tuo padre ti farà fare dei salti in aria per riprenderti al volo e delle facce che nessun altro ti rifarà mai, chiunque ti parlerà come a un cretino, non c’è niente da fare, metti in conto anche tutti i parenti di tutte e due le famiglie, ok? Finiti questi mille giorni, comincia il divertimento (sempre tuo). Ti sarai già riconosciuto allo specchio e quattro parole in croce saprai dirle, ma finalmente capirai che al mondo non ci sei solo tu ma anche e soprattutto GLI ALTRI! Vorrei che tu diventassi un uomo di mondo, come già tuo padre per talento naturale lo è,
e accettare la vita come va è il trucco per affrontarla sempre con un sorriso. Ironia, la tua migliore amica, onestà, i tuoi sonni tranquilli. Altro? Un giorno potresti rimpiangere questo periodo come il più felice della tua vita. Ma non è vero: quando sarai da solo con i tuoi pensieri adulti e dietro di te sentirai un sorriso amico, è lì che capirai di essere felice. Ed è quello che ti auguro.
mercoledì 11 gennaio 2012
In un rifugio
- Lollo, Paulette, Antonio, Albertino, Carolina, Tommi, Valerio, Edoardo, Giovi, Ludovica, Claudia, Ema, Vale, Mighi, Stefano, Antonella, Margherita, vi state zitti? Allora, attenzione quante costine? 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, no, tu no, allora... quindi 12 costine - Mamma io vojo la milanese - Anche una milanese! - Occi non facciamo milanese - Niente amore non c’è, ché vuoi una costina, poi te la finisce mamma va bene? Allora un’altra costina per favore, e sono 13, poi un controfiletto, una carbonara, due wurstel, no, una salsiccia e un wurstel alla griglia e poi basta, ok! E questa è fatta! Dopo i dolci, va bene - Ma allora è vero che non era il crociato? - No, per fortuna, meno male, però questo ortopedico è matto: prima sì poi no - Ma loro devono fare così, lo sai che rischiano a dirti di no subito e poi magari te sei rotta tutto? - Mi passi il rosso, Giovi? - È finito, aspetta lo ordino subito, come si chiama, Franz? Che inferno, ma come fanno? - Ma proprio oggi la bufera doveva arriva’? - Ieri era stupendo infatti con Ema siamo andati al Plans Frara, non c’era nessuno - Per forza, tutti vanno dall’altra parte - Ma che ce vanno a fa’? Pieno di gente, tutti uno sopra l’altro - Eh però almeno c’è un po’ di sole! - Qual è Plans Frara? - No, è il Cir, lui lo chiama così - Ma è il nome dell’impianto, come lo devo chiama’? - Eh ma la pista infatti, ecco le costine, si chiama Cir, ne mancano 3 - Atesso arrifano - La milanese, mamma - Tesoro non la fanno, adesso arrivano le costine - Ma io vojo - NON CI SONO, la milanese, non c’è - Ti ki era la zalziccia? - Mia! Me la passi? Ammàzza è poca - Prendine un’altra - Sì, lo sai quando mi sente? - Ma ti fa male il ginocchio? - No, figurati, meglio così - Chi è che ho sentito che ricomincia scuola lunedi? Tuu? Ma quanti anni hai? - 17... - 17? Te pòssino beata te! - Aho ma ‘ste lavatrici quando vanno fatte? - Domenica, mentre tutti stanno sul Brennero! - Domenica? Io le faccio sabato notte, così le stendo la mattina, la carbonara di chi era? - Eccola! Marghe mangi pure, se no si fredda - Il treno domani mattina alle 7? Ma sei pazza? - Tua madre in grande forma eh? Si fa pure la carbonara! - Guarda che col treno fai prima - Mi passi il vino? Daje! - Ma hai visto che ha fatto Monti a Cortina? Non è stupendo? - Fai prima ma ti devi alzare alle 5! - E che mi frega? Dormo sul treno! - Quanti tiramisù? - Io, io, io, io, io, no io no sto a dieta, ah ah!, io, io, io, io, io, io sì era una battuta, capito? - Ok va bene, gli altri tutti strudel? - No basta! - Allora 11 tiramisù e pure tre strudel tanto qualcuno se lo mangia - Ma adesso chi scende? Facciamo la valanga! - Ci fa il conto? - Serve ricevuta? -.
Iscriviti a:
Post (Atom)