domenica 14 febbraio 2016

Sanremo stanotte


La notte di Sanremo è cominciata non appena è finita la serata. Nel secondo in cui si spengono le luci, dietro le quinte sono già appostati i condor, i tecnici che le smontano con gli avvitatori già in moto nella cintura come colt col grilletto alzato. Non riesci a dire grazie a tutti che tutto il circo viene smontato e tu devi uscire perché adesso sono gli altri che lavorano, ti senti improvvisamente come la notte del 6 gennaio, quando devi smontare l’albero il prima possibile, perché domani è il 7 e fuori contesto quell’albero diventa tristissimo. Ma la festa non è finita, continua in strada, nei ristoranti, nei bar, nei locali, per festeggiare tutto, sei hai vinto, se hai perso, perché “vuoi mettere? Sono stato in gara a Sanremo, se me l’avessero detto un anno fa chi ci avrebbe creduto?”. I sorrisi, le pacche sulle spalle, le lacrime, le foto, gli attestati di stima, le invidie, gli autografi, i complimenti, i “grazie “davvero”, “sul serio”, “veramente” come se la semplice parola “grazie” non bastasse più. Un’orgia che ti fa brillare gli occhi senza pensare al momento che stai vivendo, lo vivi così come viene, perché un pensiero se riesce a cominciare viene interrotto da un “Oh, vediamoci, eh?” - “Si dài, ti chiamo domani” - “Ti aspetto!”. E intanto, forse, ti vedi da fuori, al rallenty, come se tutto ti passasse accanto senza sfiorarti. Fino a quando non spunta quell’alba, annunciata improvvisamente da quel cameriere che appena mezz’ora fa ti ha portato l’ultima vodka e ora sta mettendo le sedie capovolte sopra i tavoli per lavare per terra. Com’è possibile? Era lui sorridente poco fa ma adesso ha un’altra faccia, dov’è finito quel sorriso di prima?
In albergo torni solo per chiudere la valigia, e il saluto del portiere di notte ti sembra un addio più che un arrivederci. Perché l’alba dopo la festa è il momento verità nella vita di un uomo, è in quei momenti che ti chiedi cosa rimane di tutti quei coriandoli per terra. Di tutto quello che hai fatto finora.
Rimane quel taxi che aspetti ben oltre i due minuti che ti avevano detto. Non sai chi chiamare, perché tutti gli altri, quelli che fino a poche ore fa hai chiamato pubblico, dormono. E mentre lo aspetti tutto quello che vedi attorno assume un altro significato, tragico come un inverno che sta per cominciare. Mentre osservi quel negozio di orologi usati con le luci spente, non pensi all’occasione di comprarlo per fare un affare ma a chi è appartenuto prima di te, che se lo sarà impegnato perché ieri notte al Casinò non è andata bene. Ma quando arriva il taxi, senti che dici solo una cosa: “andiamo”. Perché la festa è finita. 
Bisogna trovarne un’altra.

venerdì 12 febbraio 2016

Moka Express forever

Quando un vecchio industriale se ne va lasciando in eredità a tutto il mondo un solo grande prodotto che ha il suo nome, senti che succede come per la scomparsa di un attore o di un cantante che ti piaceva: per fortuna rimangono i suoi cd o suoi dvd. Nel caso di Renato Bialetti, figlio dell’inventore Alfonso, rimane “la” caffettiera per antonomasia: la Moka Bialetti. Che rimane uno degli oggetti “eterni” della nostra vita e che, pensateci bene, senz’altro ci sopravvivrà: io stesso uso ancora quella di mia nonna che al mattino se ne beveva una intera da 6 DA SOLA inzuppandoci gli avanzi dei panini all’olio che mi comprava.
Fatto sta che la prima cosa che compri quando vai a vivere da solo è proprio una caffettiera, perché vuoi mettere la soddisfazione di farti il tuo primo caffè da solo, a casa tua? Ti sei alzato dal tuo letto, nella tua camera da letto, vai in cucina e non c’è nessuno, la prendi, la apri, metti l’acqua fino alla tacchetta, e comunque sotto la valvola, metti quell’imbuto, che lentamente galleggiando scende giù e poi apri la tua busta di caffè che ti sei comprato apposta, con un cucchiaino ce lo versi lentamente, a piccole dosi, e in quel momento ti vengono tutti in mente i trucchi che vedevi fare a tua nonna (i tre buchi, oppure lo schiacciava, oppure lo radeva a filo, oppure faceva una collinetta, oppure “fai come ti pare”). Finalmente la chiudi, ti sembra di aver costruito una casa, accendi il gas e la metti sopra. Via. TUTTO DA SOLO. Nel frattempo prendi la tua tazza preferita, le fette biscottate Gentilini, la marmellata all’albicocca, accendi la radio, fai questa cosa per la prima volta forse, la radio in cucina, parliamo comunque di una Tivoli iPal, e attenzione: pochi secondi ancora e senti uno dei più bei rumori della tua vita, un rumore così bello da sembrare un suono. Si tratta del gorgoglio più musicale al mondo e lo fa solo lei, LA TUA MOKA EXPRESS, così si chiama, marca Bialetti. Mentre ti bevi quel caffè, il primo fatto da solo nella tua prima casa da solo, senza nessuno in giro, (te lo dico subito che è il caffè più buono della tua vita, non te lo scorderai mai più), ti sentirai come un re! E vorrai bene a quella macchina che ti resisterà negli anni, perché tu ancora non lo sai, ma quella macchina è composta di pezzi, che puoi sostituire se si rompono, perché quegli oggetti erano costruiti in un modo che si potevano riparare. Non esisteva la parola buttare all’epoca in cui Alfonso la inventava. Quindi un giorno ti comprerai la chiave inglese (la numero 9) per sostituire la valvola, il manico, il coperchio e anche solo quel pomellino ottagonale, l’imbuto, il filtro, la guarnizione e quella caffettiera ricomincerà a farti quel caffè straordinario. 
Quindi grazie Alfonso e Renato: voi non ci siete più ma la vostra moka sì, e io ve ne sarò sempre grato. Perché quella caffettiera mi ha visto crescere!