I pezzi sigla sono quei pezzi (come li chiamo io “pezzi”, si
dovrebbe dire “brano”, ma “pezzo” mi piace di più, non so perché) che per un
motivo o per l’altro diventano la sigla di qualche momento della tua esistenza.
Non dipende dall’epoca in cui sono stati scritti, ma dal momento in cui sono
capitati nella tua vita. E assumono solo quel mood che stavi vivendo allora.
Tra i tanti mi è tornato in mente questo di Christopher
Cross: “Ride like the wind” del 1979, anche se per noi era una novità del 1981!
Nel mio caso specifico questo pezzo è diventato senza volerlo la sigla della
notte dei miei “100 giorni”. Eravamo con quasi tutta la classe al Circeo, in
una casa di una nostra compagna che l’aveva aperta a marzo per l’occasione:
sacchi a pelo per tutti, divani, e i letti delle camere. Ovviamente tutti a
urlare “barbecue”, poi una volta arrivati si scopre che piove, tira vento e che
fa un freddo blu. Quindi pizza e via! (cosa avremmo combinato in quella
pizzeria?!). Poi si torna a casa, qualcuno (io) fa le foto con una Kodak
Instamatic Pocket, una camera oscura di plastica nera che aveva l’ardire di
chiamarsi macchina fotografica. Ma rivederle oggi quelle foto si piange
comunque. Qualcuno tira fuori le carte e si organizza un poker patetico. Le ore
passano, qualcuno sviene in branda, si rifanno gli stessi circoli della
ricreazione, gli amici con gli amici, qualcuno finalmente scopre che quel
compagno di classe che odiava dal primo giorno del ginnasio in fondo non era
poi così male.
Poi l’alba, che fai non la vedi? Con il solito astronomo
secchione che dice “l’alba sul Tirreno non c’è, si vede sull’Adriatico...”. Ah
già! Vabbè ma che ci frega! Noi siamo giovani, noi dobbiamo fare la maturità! I
discorsi si allentano, i silenzi diventano più lunghi e gli sguardi si
cominciano a perdere davanti a quest’alba che non arriva. E a qualcuno viene
un’idea: prende una cassetta TDK e la mette in un radione, fregandosene di
quelli che dormono, e partono quegli accordi, Dom7, Sib, dove c’era innanzitutto
qualcosa di simile a un orgoglio celato (“ce la posso fare”, non proprio un “ce
la farò” compiuto), e una certa fatica da affrontare. Improvvisamente tutti
sentono qualcosa nelle orecchie e nell’animo. Ci sentiamo davanti alle nostre
vite ancora da vivere, ancora fresche, piene di illusioni, e qualche certezza,
che a pensarci bene, le certezze di un diciottenne sono le più tristi che si
possano avere. Ma eravamo tutti con il futuro davanti, tutti con quella forza
che non riavremo mai più nella nostra vita. Ed è proprio in quel momento che
comunque un po’ di luce arriva sulla spiaggia, non è l’alba del Tirreno, è la
nostra, e sotto c’è questo pezzo dal titolo profetico: ride like the wind. E per
un attimo immenso abbiamo pensato che nella nostra vita avremmo dovuto correre
come il vento.
E basta.
PS: sia chiaro poi che se la canzone nell’inglese di
Christopher Cross parla di uno in fuga dal Messico con i problemi a scavalcare
la frontiera e il suo passato, è un altro paio di maniche, e certo non ne
parliamo in questo blog.
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